Grecia. Evros, il fiume della morte

LETIZIA TORTELLO

Le acque dell’Evros, al confine turco, trascinano i corpi gonfi di chi non ce la fa, passare di lì è l’unica via rimasta verso l’Europa, mentre Atene alza il suo muro.

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Cadavere A.1, cella 15. Quel che resta di un uomo è scritto su un foglietto bianco in plastica attaccato al fondo del sacco blu, dove ci sono i piedi: numero identificativo 1019/27/270. Non c’è nome, quell’uomo è “Nessuno”, mai nessuno saprà la sua storia o il nome del Paese in cui sognava di scappare. È annegato senza aiuti, perché non sapeva nuotare, nelle acque gelide tra Grecia e Turchia, quella porta di casa nostra verso cui tutti chiudono gli occhi. Il fiume Evros, trappola di morte. All’obitorio dell’ospedale pubblico di Alexandroupoli, il professor Pavlos Pavlidis è l’ultimo che li guarda in volto, questi fantasmi, migranti dimenticati, oggi per lo più giovani tra i 20 e i 25, in cerca di un lavoro.

«Questo era un ragazzo, lo ricordo», dice, aprendoci il frigo. Cadavere A.1 è steso lì da metà ottobre dell’anno scorso. È uno dei venti corpi senza vita di richiedenti asilo conservati nella struttura sanitaria. Andati a fondo con tutti i loro tanti vestiti uno sopra l’altro, perché sui gommoni di tre metri per tre condivisi con altre 10 persone, non si possono portare valigie. Giusto un borsello, una busta di plastica con sigarette, qualche euro, e medicine, un portafortuna. Il fiume li inghiotte. «Li troviamo anche dopo settimane», continua il medico legale. Gonfi da testa a piedi, sfigurati dall’acqua dolce e dai pesci, di molti non si legge neanche più il volto. Se “va di lusso”, hanno il giubbetto di salvataggio, ma non è servito a niente. Invece, quelli morti di ipotermia sì, li riconosci ancora, il freddo non gli ha cambiato i connotati. E poi ci sono gli effetti personali: una catenina, un braccialetto con il cuore e la bandiera della Siria, una pinzetta azzurra come quella che salta fuori dalle scatole che Pavlidis fa sbucare da sotto la scrivania. Appartenevano a una migrante di 12 anni, morta il 16 aprile scorso. Spogliandoli di quel che hanno addosso, è più facile procedere con il protocollo di identificazione: prima si fa la foto, poi si preleva il Dna, se si può le impronte digitali, per ricostruire il Paese di origine. A quel punto, si contatta l’ambasciata e si spera che qualche parente abbia seguito il viaggio e li abbia reclamati.

I migranti dell’Evros pagano 1000 euro ai trafficanti per passare il fiume che porta di qua. In questo angolo di Grecia che nel mito antico era la terra degli dei, Orfeo e Dioniso, e dell’eroe Spartaco, e che oggi è la frontiera tra due Stati dai rapporti diplomatici tesissimi fino a poche settimane fa. Quando c’è stato il terremoto, ed è scattata la solidarietà e una specie di pacificazione elettorale. Ankara andrà al ballottaggio la prossima settimana, Atene è chiamata alle urne domani, per rinnovare il Parlamento. La parola d’ordine della campagna elettorale è “muro”. Dalla sinistra di Syriza a Nuova Democrazia, l’immigrazione è tradotta con la dottrina della sicurezza e della chiusura dei confini. «Nessuno in Grecia vuol più sentir parlare di diritti umani e del problema degli immigrati, interessano solo gli stipendi, la riforma delle pensioni e la crisi sociale», spiega Lefteris Papagiannakis, capo della Ong Human Rights 360, che opera sull’Evros e di continuo riceve segnalazioni di migranti alla deriva, picchiati, denudati, forzati a partire, respinti. La polizia greca pattuglia h24, lo stesso fa Frontex, per conto della Ue.

«Questa gente non ha nessun documento con sé. Li gettano in mare, perché se capiscono da dove arrivi, ti rispediscono a casa più facilmente», commenta il professor Pavlidis. Alto, secco, giacca e cravatta e jeans, volto scavato dalle tante disgrazie a cui ha dovuto assistere, nei ventitré anni di servizio all’ospedale di Alexandroupoli. «Sì, faccio tutto da solo, certo». Dal 2000, ne ha recuperati e analizzati 670, di cadaveri. Solo dal lato greco, perché con i colleghi turchi non c’è collaborazione. L’anno scorso, erano 63. Mentre da inizio gennaio, con l’avanzamento del muro che Atene sta costruendo a sue spese per bloccare gli ingressi, «ne abbiamo trovati 11». Ma non sono morti di ipotermia, con temperature che d’inverno raggiungono i -18°. Nemmeno affogati. «Sono morti in un frontale, un incidente stradale – spiega –, mentre tentavano di sfuggire alle guardie».

Se Cadavere A.1 è il più vecchio nelle celle dei “signori nessuno” arrivati senza vita dalla Turchia, la bimba della pinzetta azzurra è l’ultima vittima del fiume Evros. Risale al 16 aprile scorso. Era in fuga dalla Siria, con altri cinque uomini, forse parenti. I migranti di quella guerra, negli ultimi mesi, si vedono meno. Vengono piuttosto da Afghanistan, Pakistan, Iran, Iraq, Kurdistan, Marocco, Somalia. Sakis Attanasios, un pescatore 43enne dell’Evros, conosce volto per volto i disperati che battono questa rotta mortale. Vive lì, in mezzo alle anse del fiume in una capanna di legno e lamiere, col cane, il padre e l’aiutante. Ci fa fare un lungo giro sulla sua barca. È lui la triste enciclopedia delle tragedie: sa come cambiano le rotte che gli smugglers costringono chi parte a seguire. E ce le illustra: «Una volta arrivavano i trafficanti da Atene fare da traghettatori, oggi no. Oggi gli danno un foglietto, un gommone che se ti muovi si ribalta, gli dicono dove l’acqua è bassa per portarlo a mano, li fanno salpare quasi all’alba, alcuni ci mettono anche due giorni per passare, si nascondono sugli isolotti per paura di essere presi». Se sopravvivono a questo inferno, gli viene inviato un altro link con una posizione su Google Maps sul cellulare, dove possono trovare un’auto rubata e continuare il viaggio. Se arrivano fino ad Atene, poi, manderanno un video ai familiari, in cui dichiarano di essere vivi, e che possono far partire il bonifico ai trafficanti.

Quante volte le chiedono aiuto, Sakis? «Sempre – ci dice, con lo sguardo rassegnato, offrendoci un caffè greco, molto simile a quello turco –, mi urlano “help!”. Ma io devo seguire le regole, chiamare la polizia, aspettare dieci minuti, e poi li carico sulla barca e glieli consegno. Altrimenti mi accusano di traffico di esseri umani». I 37,5 chilometri su 140 di muro ancora da completare – alto tre metri, in acciaio, inavvicinabile, ogni 200 metri una torretta con telecamere termiche – hanno ridotto i passaggi dell’80%. Ma quando non è il fiume a uccidere, al confine dell’Evros c’è qualcos’altro: «Una bambina è finita sotto un treno – racconta il professor Pavlidis -. Camminava lungo i binari. In Pakistan, i treni vanno piano, pensavano di saltarci su». La destinazione era la Germania, probabilmente. Il sogno europeo si è schiantato ai confini dell’umanità, all’obitorio di Alexandroupoli.

in “La Stampa” del 20 maggio 2023

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