Attualità di don Milani. Un insegnamento da non disperdere

RICCARDO CESARI, intervistato da ANTONIO CARIOTI

Con il titolo Hai nascosto queste cose ai sapienti l’economista Riccardo Cesari ha pubblicato per l’editore Giunti un libro che ripercorre la vita e il pensiero di don Lorenzo Milani, il sacerdote anticonformista nato a Firenze cent’anni fa, il 27 maggio 1923. Attraverso la sua esperienza a contatto con i parrocchiani, prima a San Donato di Calenzano e poi nel minuscolo e sperduto paesino di Barbiana, quel prete anomalo maturò una visione profondamente critica della società di allora, segnata da diseguaglianze stridenti e lontanissima dall’insegnamento del Vangelo. Oggi viviamo in un mondo diverso, ma alcuni nodi problematici indicati da don Milani, secondo Cesari, non hanno perso di attualità.

Colpiscono gli scritti in cui don Milani osserva che l’aumento della produttività nelle industrie non va a vantaggio degli operai.

«È un’analisi che si ritrova anche nel Capitale di Karl Marx e nella letteratura sulla prima rivoluzione industriale, in cui si denuncia lo sfruttamento dei lavoratori, inclusi donne e bambini, che non beneficiano del progresso tecnologico. A sua volta il priore di Barbiana non si limita a segnalare la miseria della condizione operaia, entra nel merito della questione usando anche i numeri. Emblematico il testo in cui denuncia il caso di “Mauro” (il nome è di fantasia, ma il fatto è vero), un ragazzo che ha cominciato a lavorare dodicenne a cottimo e in nero in un’industria tessile di Prato. In virtù dell’automazione Mauro arriva a controllare contemporaneamente quattro macchinari, con un aumento di produttività gigantesco, ma la sua paga resta uguale, prende sempre le solite 750 lire a giornata. Poi viene licenziato perché il datore di lavoro ha manodopera in abbondanza e se ne può disfare. Viene presentata una denuncia contro l’imprenditore, ma l’ispettore del lavoro non trova alcuna irregolarità».

Il caso è degli anni Cinquanta, le pare ancora attuale?

«Il lavoro precario, sottopagato o in nero non è certo una piaga scomparsa. Proprio nei pressi di Prato, a Montemurlo, due anni fa c’è stato il caso di Luana D’Orazio, che faceva lo stesso mestiere di Mauro, uccisa da un macchinario con i sistemi di sicurezza disattivati. Se lavorano a cottimo o sono costretti a orari massacranti pur di portare a casa una paga decente, spesso gli operai mettono a repentaglio la loro salute, se non la vita. Casi del genere negli anni Cinquanta erano più frequenti, ma li troviamo anche oggi. Perciò la denuncia di don Milani risulta quanto mai attuale».

Eppure oggi i lavoratori dovrebbero essere più consapevoli dei loro diritti.

«Non è sempre così. Pensiamo alla manodopera impiegata in nero senza protezione sindacale. O alla condizione in cui si trovano gli immigrati. Don Milani insisteva sulla necessità di sottrarre i ceti più umili all’ignoranza che li rendeva inconsapevoli e sottomessi e quindi più esposti allo sfruttamento, privi degli strumenti per migliorare la propria situazione. Da qui la sua idea di dare ai ragazzi dei ceti più umili un’istruzione di base per renderli padroni della parola, capaci di far valere le proprie ragioni».

Un ruolo da agitatore sociale più che da prete.

«L’approccio di don Milani nasce anche da un’esigenza pastorale. Se i poveri vivono nell’ignoranza, diventa impossibile portare loro il messaggio del Vangelo, quindi bisogna farli crescere sul piano culturale. In caso contrario è come se fossero dei sordomuti, ai quali non si può predicare perché non intendono la parola di Dio. Come ha scritto padre Ernesto Balducci, il legame tra parola evangelica e riscatto sociale degli ultimi è un atto della realizzazione del Regno di Dio».

C’è chi accusa don Milani di avere trascurato l’esigenza di premiare nella scuola il merito e l’impegno.

«È un punto importante e delicato. Don Milani ritiene fondamentale ridurre il dislivello tra gli alunni, fornire a tutti un minimo di istruzione comune con politiche che oggi chiameremmo di discriminazione positiva. Si tratta di dare di più a chi ha meno, ridurre il gap tra gli avvantaggiati e chi viene da situazioni disagiate. Da questo punto di vista il richiamo alla meritocrazia è fuorviante: lo scopo principale della scuola dell’obbligo non deve essere premiare i più bravi, ma aiutare gli ultimi, che spesso hanno anche loro capacità nascoste da valorizzare. Nel suo articolo Giovani di montagna e giovani di città don Milani sottolinea che i montanari non è che sappiano meno dei cittadini, semmai sanno altre cose: riconoscono il sesso di un coniglio, distinguono una vipera da un serpente innocuo. Il guaio è che manca loro la parola e per questo sembrano meno meritevoli».

Insomma, la meritocrazia, oggi tornata di moda, diventa un modo per escludere i ceti subalterni.

«Non dimentichiamo che il termine meritocrazia è stato coniato dal sociologo Michael Young in un libro distopico del 1958. L’autore immagina una società nella quale tutti i posti di potere sono riservati a chi ha un quoziente d’intelligenza superiore a 130. Ne deriva un impetuoso progresso tecnologico, ma al tempo stesso una grave perdita di dignità per i meno intelligenti, che si sentono discriminati e alla fine, nel 2034, si rivoltano contro l’élite. Dice il protagonista del libro di Young: “Nonostante la loro mancanza di capacità, si comportano come se soffrissero per una mancanza di dignità”. Oggi ci sono studi che dimostrano come l’ossessione della meritocrazia finisca per mascherare il peso dell’eredità familiare, che resta determinante. Infatti, le misure dell’“intelligenza” (gli skill cognitivi) sono correlate alla condizione familiare. Come dice don Milani: “Dio non fa nascere i cretini e gli svogliati nelle case dei poveri”. Chi ha genitori istruiti è privilegiato, chi viene da realtà problematiche fa più fatica a studiare: c’è un handicap iniziale che si perpetua negli anni e che la scuola dovrebbe colmare. Come notavano i ragazzi di Barbiana, fare parti uguali tra disuguali è una profonda ingiustizia».

Un altro argomento su cui lei sottolinea l’attualità di don Milani è quello dei beni comuni.

«Anche qui la vicenda parte da un caso concreto. In un terreno vicino, di proprietà di un ingegnere, c’era una polla d’acqua che usciva e si perdeva nei campi. Viene realizzato un progetto (grazie a una “benemerita legge Fanfani”) per incanalarla a vantaggio della popolazione di Barbiana, ma a un certo punto il proprietario cambia idea e si rifiuta di collaborare. Così il capriccio di un singolo asseta un’intera comunità. Don Milani s’indigna, ricorda che anche san Tommaso riteneva che in situazioni di estremo bisogno la proprietà privata non può essere un ostacolo al conseguimento del bene comune. Invece il codice protegge la proprietà. “L’acqua è di tutti”, scrive il priore di Barbiana: un principio che è stato riaffermato in occasione dei referendum contro la privatizzazione delle risorse idriche del 2011».

Tra l’altro don Milani sottolinea l’importanza del diritto di voto.

«Fa appello alla responsabilità del cittadino ed è il nucleo educativo della sua scuola. Per lui lo sciopero e il voto, la parola e l’esempio sono il perno di una società viva e aperta. Crede nella partecipazione (il famoso I care) e sottolinea l’importanza del compito di favorirla che spetta a figure “pubbliche” come l’insegnante, il sindacalista, il prete. Se la politica non dà risposte adeguate a esigenze diffuse, se la Costituzione rimane inattuata nelle sue parti riguardanti la giustizia sociale (il famoso articolo 3), ne consegue una sfiducia nelle istituzioni che don Milani considera molto pericolosa. Il progressivo calo dell’affluenza elettorale che riscontriamo in Italia dimostra quanto la sua preoccupazione fosse fondata».

in “la Lettura” del 14 maggio 2023

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