La scuola di Barbiana. Il metodo innovativo di don Milani

SANDRA GESUALDI

Ci sono luoghi che per essere grandi devono restare piccoli. Che per farsi ascoltare hanno bisogno di silenzio. Anzi la loro voce è il silenzio. Quello denso e tombale che imbarazza le coscienze molli tanto custodisce un tempo inestimabile. Il tempo delle lotte partigiane, delle fatiche e miserie mezzadre, dei pensieri ribelli e della conoscenza che squarcia. Dell’esilio che fa soffrire. Ci sono luoghi immensi proprio perché, pur essendo tanto minuti e marginali, sono riusciti a contenere un’epoca, delle idee e scelte così.

Barbiana è uno di quei luoghi. Se la osservi dalla collina di San Martino, dalla parte dove sorge il sole e che le sta dirimpetto, sembra un bottone piccolo sul manto lanoso di boscaglia.

Un mucchietto di sassi incastonati nel Monte Giovi, un nodulo chiaro tra il verde brillante del Mugello da cui spunta, acuto e sottile, il piccolo campanile. Che quella è Barbiana lo si capisce proprio dalla torre campanaria in pietra, tipica delle chiesette di campagna. Quattro campane ancora squillanti, la piccola, la mezzanina e le due grandi per i rintocchi lontani. Da suonare rigorosamente a mano, strattonando con forza grandi corde.

«Un paesino di poveri» la definì don Milani, un anno dopo il suo arrivo. Scrisse una lettera a Ettore Bernabei, allora direttore del «Giornale del mattino». Era il 1955 e la intitola Lettera dalla montagna dove racconta i suoi tentativi di metter su una cooperativa di contadini per costruire un acquedotto che avrebbe portato l’acqua a nove case sparse tra i campi. Non c’è mai stata l’acqua a Barbiana, ancora oggi scarseggia. Eda a turno mandava i ragazzi della scuola a riempire stagne al Fatino, il fiumiciattolo che scappa via dalla montagna per buttarsi nella Sieve. Qualche anno dopo, quando il Priore costruisce coi barbianesi la piscina, il loro «mare che profuma di montagna», per togliere il tabù dell’acqua ai montanarini, chiede in regalo a Elena Brambilla Pirelli un tubo di gomma lungo centinaia di metri per portare l’acqua dalla sorgente alla vasca.

Oltre al silenzio che non lascia in pace, a Barbiana c’è il buio. Quello che assorbe e ingoia ogni certezza. Quando viene mandato in quel posto sperduto dalla Curia fiorentina don Lorenzo ha 31 anni. Doveva essere un esilio, forse per poco, per imbrigliare fede cristallina e coscienza salda e normalizzarlo un po’ tra liturgie e messe cantate di spalle ai fedeli. Invece lui, loro: Eda e nonna Giulia non lo abbandoneranno mai – appena affonda gli scarponi nel fango di Barbiana, decide che quella terra dura, fatta di galestro e filari di patate, è la sua terra: «Cara mamma…non posso però credere che tu desideri che io mi metta nello stato d’animo del passante o del villeggiante».

A Barbiana don Lorenzo trova la sua Terra promessa abitata da mani callose, case sporche di fumo, ragazzini lavoratori che all’alba puliscono le stalle, pane secco da dividere, indigenza di parole. A Barbiana don Lorenzo riceve il miracolo di Grazia: cammina tra gli ulivi e le pecore, ridipinge di celeste tavoli e finestre, apre porte, costruisce strade, ponti e macchine per leggere il cielo, bussa alle case celate dall’isolamento, guarda negli occhi i suoi barbianesi «timidi e sospettosi». Capisce subito che quella zolla di terra battuta dal vento è la sua destinazione. Dopo ventuno giorni che è lassù scrive la seconda lettera alla mamma: «Non c’è poi motivo di parlare del domani. Non ti basta l’affanno d’ogni giorno? E neanche c’è motivo di considerarmi tarpato se sono quassù. La grandezza di una vita non si misura dalla grandezza del luogo in cui si è svolta ma da tutt’altre cose. E neanche le possibilità di far del bene si misurano sul numero di parrocchiani».

A Barbiana don Milani trova il Vangelo, battuto da «tramontano tagliente e neve» e incarnato in quella manciata di ragazzini e ragazzine assetati di scuola e nei loro genitori custodi di una cultura antica: nello stupore degli occhi di Carlo, nella sapienza delle mani di Quintilio, nei capelli spessi e le ribellioni di Michele o nel mutismo consapevole di Marcellino. Un’immensa solitudine fatta apparentemente di nulla e abitata di carne e ossa. «Mi fa tenerezza, il pensare che sei giovane per addentrarti nell’immensa solitudine di chi cerca solo di salvarsi l’anima», scrive don Lorenzo all’amico prete Ezio Palombo. «Ma solitudine per modo di dire. Si perde tutti i superiori, quasi tutti i confratelli, tutti i signori, quasi tutti gli intellettuali e si trova in compenso tutti i poveri, gli analfabeti, i deficienti… Molte domeniche non ho che loro e penso sempre che Dio mi deve volere molto bene se mi circonda dei suoi elettissimi a quella maniera».

Questa è la forza di Barbiana, il suo nulla generativo, la sua povertà e marginalità che hanno plasmato don Lorenzo Milani trasformandolo dal prete dei poveri in povero tra i poveri. Il cammello che riesce a passare la cruna.

Quando Papa Francesco il 20 giugno 2017 visitò la sua tomba, non fu toccato neppure un sasso. Barbiana venne mantenuta esattamente povera e austera com’era. Nessun palco, nessun imbellettamento. La foto del Pontefice davanti al Priore di Barbiana è potentissima. Quel giorno ringraziò nostro Signore per averci dato un prete come Lorenzo, ma fece anche altro. Solitario e commosso in quel piccolo cimiterino di campagna Francesco pregò per gli ultimi, i dimenticati, i servi di quella terra dura, i fantasmi della storia. Di fronte a lui oltre a Lorenzo c’erano Leonardo, il mezzadro che si spaccò la testa cadendo dal fienile, la nonna Giulia e tutto il popolo di Barbiana che quel giorno, davanti al Vescovo di Roma divennero gli elettissimi tanto amati da Lorenzo.

Ecco Barbiana è tutto questo, un luogo di silenzio, preghiera e profonda ispirazione. Uno spazio sacro, fatto di freddo, sterco di mucche, fango, cieli stellati, rugiada, carezze e fatica ancestrale di uomini e donne che hanno grattato la vita a mani nude. E di fede. Ai potenti della politica ricorda che il potere dovrebbe dare voce ai senza voce e forza ai deboli, senza ingannarli per strappare loro un consenso facile. «Fai strada ai poveri senza farti strada». In questo centenario dalla nascita di don Milani, pullulante di celebrazioni, iniziative, convegni, Lorenzo deve continuare a essere soprattutto una spina nel fianco, una vergata alle coscienze che costringe a tenere la schiena dritta e tendere a una politica nobile e a un impegno caparbio. Con l’esempio. E Barbiana un modo di vivere, impegnato, schierato, dedicato. Giustizia che brucia. Da visitare in silenzio e da difendere da ogni tentazione, già in atto, di “valorizzarla” in termini di marketing turistico. Barbiana non ha bisogno di parcheggi, ristoranti o alberghi vicini, navette, Wi-Fi e guide. E neppure di passarelle e auto-scatti. Barbiana ha bisogno del suo silenzio e nulla intorno perché lì ci sono le lotte del Milani. In punta di piedi, come l’ha attraversata Papa Francesco.

in L’Osservatore Romano, 22 aprile 2023

Contrassegnato da tag ,