Covid. Un virus diventato malattia sociale. Obbligo vaccinale o no? Dibattito

SALVATORE SETTIS

Pur con esitazioni e rinvii che non fanno onore a nessuno, l’indirizzo del governo verso un esteso obbligo vaccinale sembra finalmente chiaro. E’ una buona notizia, come lo è la proposta Cgil di ulteriore estensione dell’obbligo. Ma non basta. L’antivigilia delle elezioni del nuovo Capo dello Stato cambia radicalmente le carte in tavola. Nel governo Conte 2 e per lunghi mesi del governo Draghi l’Italia ha potuto nonostante tutto dare un esempio di coerenza e continuità nelle misure anti- virus, ma l’imminenza delle votazioni e le incognite che ne conseguono (anche per l’ipotesi di un passaggio di Draghi da Palazzo Chigi al Quirinale) ha tolto lucidità al dibattito politico. Per molti, il problema centrale non sembra più essere il CoViD-19, ma il gioco di ruolo fra partiti con gli occhi fissi non sulla salute della collettività ma sul Colle più alto. Crescono le resistenze, si moltiplicano le sfumature, si va in cerca non della soluzione tecnica più ragionevole, ma di un qualche compromesso politico a portata di mano. Così sarà fino all’elezione del Presidente e forse anche oltre: proprio mentre Omicron imperversa. Non è un bel segnale: la pandemia, che richiederebbe un approccio condiviso, diventa terreno di scontro politico con in mente tutt’altro fine. Come se il prossimo Presidente, chiunque sia, potesse mai avere il potere taumaturgico di sconfiggere il contagio.

Per la seconda volta dopo l’esplosione precoce dei contagi nel febbraio 2020, l’Italia si trova suo malgrado nella scomoda posizione di protagonista di uno stress test non tanto e non solo sul virus, ma sulle conseguenze politiche e sociali delle relative misure di contrasto. Una scadenza politica cruciale come l’elezione del Capo dello Stato è una peculiarità italiana del momento, ma la pandemia e le sue conseguenze sono in tutto il mondo un’efficace cartina di tornasole che mette in luce alcuni gravi problemi da cui le nostre società sono oggi afflitte. Il più evidente è forse la cacofonia di voci, dati, statistiche, valutazioni, previsioni contraddittorie da cui veniamo quotidianamente bombardati: all’interno di ciascun Paese si moltiplicano pronostici contrastanti, voci stonate che rifiutano di vedere il pericolo anche se ne stanno morendo. Si rincorrono norme spesso incoerenti di autorità nazionali e locali in guerra tra loro. Paesi confinanti e simili tra loro fanno ben poco per adottare criteri di giudizio non dico identici ma compatibili; cresce di giorno in giorno la sfiducia nell’attendibilità dei numeri (contagiati, ricoverati, morti) diffusi da alcuni Paesi con governi più o meno autoritari. La voce delle istituzioni internazionali, da quelle europee all’Oms, non riesce a spegnere tanto disordine, anzi rischia di esserne soffocata.

Il rumore di fondo di questo divincolarsi fra troppi discorsi di corto respiro sovrasta ogni tentativo di guardare al recente passato per individuare possibili cause socio-politiche della situazione presente o un qualsiasi lungimirante progetto sul futuro. Per esempio, la necessaria vaccinazione globale di tutte le popolazioni del pianeta resta tutto sommato al margine della discussione pubblica e, mentre nei Paesi opulenti come il nostro si spacca il capello in quattro sul Green Pass, almeno tre miliardi di persone non hanno di fatto accesso ad alcun vaccino o cura. Ci consoliamo, pare, con le statistiche secondo cui nei Paesi più poveri dell’Africa il tasso di contagiati è basso: ma se è così (ammesso che i dati siano affidabili) è solo perché in quei Paesi l’età media è assai bassa (17 anni in Mozambico), e il virus colpisce meno i più giovani. C’è davvero poco da ridere. Per generalizzare l’uso dei vaccini (anche di quelli ancora allo studio, che saranno ancor più efficaci) sarebbe necessario liberalizzare al massimo la produzione dei farmaci, sospendendo i brevetti e incentivando la diffusione delle conoscenze e il confronto tra le varie linee di ricerca, come già avviene da anni con i vaccini anti-influenzali (ne ha scritto molto bene Ugo Pagano su L’Espresso del 27 luglio scorso).Un tal traguardo ha dalla sua fortissime ragioni etiche e politiche, ma anche sanitarie: tutti saremmo messi in sicurezza dalla diffusione universale dei vaccini.

Ancor meno presente nel dibattito pubblico è il nesso indubitabile fra la veloce mutazione di questo e altri virus e gli allevamenti intensivi, dove miliardi di animali sono ammucchiati gli uni sugli altri in spazi ristrettissimi: aumenta così il profitto degli allevatori, ma anche la sofferenza degli animali e la rapidità di mutazione degli agenti infettivi. Ma perché se ne parla così poco, e come mai chi nega il contagio e svaluta i vaccini non tiene conto di questo dato? Come mai, anzi, sorgono nuovi allevamenti intensivi come se niente fosse? Se un dato certo come questo viene rimosso, è anche perché, come ha scritto Piero Bevilacqua sul Manifesto (6 gennaio), c’è chi pratica senza rimorsi un’arroganza antropocentrica, un “mondo senza natura” dove le (proprie) teorie prevalgono sull’evidenza dei fatti. Un atteggiamento ben descritto da Telmo Pievani nel suo recente Serendipità (Cortina editore): «Se i fatti contraddicono i nostri convincimenti, tanto peggio per i fatti».

Le strane convergenze parallele fra populismi di destra e intellettualità di “sinistra” in Italia (La Stampa, 18 agosto 2021) trovano rispondenza anche in altri Paesi prosperi, dove come da noi il dibattito tende ad allontanarsi dal minaccioso terreno della sanità collettiva per scivolare nelle certezze fasulle di una libertà individuale allineata di fatto con istanze e miti neoliberali. Si ignora in tal modo la crescente necessità di considerare la conoscenza scientifica un bene comune da spendersi in favore dell’umanità nel suo insieme, e non di questa o quella compagnia farmaceutica. Nulla quanto l’innovazione biomedica dovrebbe essere considerato un bene pubblico, e lo mostra bene uno studio di Massimo Florio presentato al Parlamento Europeo in armonia con le raccomandazioni del Fdd (Forum disuguaglianze e diversità). La proposta, audace e semplice al tempo stesso, è di creare, secondo il modello Cern, un’infrastruttura pubblica europea per la ricerca e sviluppo dei farmaci per la cura delle malattie infettive (Micromega, 5 gennaio).

Il CoVid è una malattia del corpo individuale, ma anche del corpo sociale: accresce le disuguaglianze e l’ingiustizia sociale, moltiplica le differenze di ceto e di reddito, diffonde l’ansia, la frustrazione e i disturbi psichici specialmente fra i giovani, emargina i più fragili, rende insanabili le diversità. Ferisce il corpo e l’anima, il singolo e la comunità. Quando ci decideremo a capire che questa pandemia e le altre che seguiranno trovano terreno fertile non solo nelle persistenti carenze della sanità pubblica ma anche nella cieca abitudine di porre al centro l’individuo e non l’interesse della collettività come vorrebbe la Costituzione?

in “La Stampa” del 19 gennaio 2022

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