Ius soli e integrazione tra vecchie paure e assenza di visione politica del futuro

RENZO GUOLO

La discussione sullo Ius soli si incaglia sul nodo del consenso. Larga parte della società italiana è, quantomeno, scettica verso l’inclusione dei molti residenti di prima o seconda generazione. Per motivi ideologici e identitari, per timore della concorrenza nelle risorse scarse del welfare, per paura di un futuro “tribalizzato” in una società frantumata in nicchie etniche e religiose, o condizionato dal proliferare di sacche sociali e territoriali sempre più degradate. Paure che vanno politicamente affrontate, non rimosse con sufficienza o opportunisticamente usate per lasciare tutto come sta. Perché la politica di cittadinanza fondata, come in tutti i grandi Paesi occidentali, sullo Ius soli non trovi troppe resistenze, e diventi così politicamente costosa per i partiti, è necessario non solo tutelare i diritti di chi si ritrova ingiustamente nelle condizioni di figli di un dio minore, ma anche disegnare una cornice nella quale quel provvedimento “parli” alla nazione indicando un orizzonte. Insomma, il dibattito italiano sullo Ius soli è avvilente non solo per i vetusti veti ideologici e identitari della destra xenofoba, ma perché inesorabilmente monco. Come sempre domina la logica dei due tempi: prima lo Ius soli, poi… che cosa? Eppure, questo è il punto decisivo.

La sacrosanta battaglia sullo Ius soli dovrebbe essere un tassello nella più vasta riflessione sull’integrazione culturale, che in Italia latita. Perché politicamente e culturalmente scomoda. Allargandosi al tema, sin troppo vituperato, del modello d’integrazione. Ne esistono molti, con pregi e difetti, in varie versioni, come insegnano altri Paesi europei che hanno sperimentato l’assimilazionismo o il multiculturalismo. In Italia, per attenuare le fratture politiche e superare le obiezioni di quanti, anche tra gli esperti, ne temevano le rigidità, si è preferito agire per stratificazione normativa.

Immettendo ciclicamente nell’ordinamento nuove norme di legge, spesso cadute sotto i colpi di maglio dell’alternanza, che mancavano di un requisito fondamentale: indicare la direzione di marcia. Una direzione comprensibile a tutti, soprattutto a quanti dovevano, con il loro consenso, dare il via libera a quella difficile costruzione sociale.

Si sono così verificate situazioni di fatto politicamente indicibili. Quando ha vinto la destra, si è imposto un assimilazionismo senza assimilazione, dominato da un muscolare quanto retorico richiamo al rispetto delle leggi esistenti — ciò che dovrebbe essere un prerequisito — senza che fosse messo sul tavolo il vero oggetto dello scambio politico legato al modello assimilazionista: la rinuncia ai particolarismi culturali nella sfera pubblica in cambio della cittadinanza, rimasta un voluto miraggio in uno schema law and order teso non solo a blindare i confini del riconoscimento ma a non darne alcuno.

Quando ha vinto la sinistra, si è realizzato un prudente allargamento dei diritti fatto di microprovvedimenti, finalizzato a non irritare un elettorato sobillato da attivi imprenditori politici della xenofobia. Silenzio, invece, sul futuro; quasi a dire: ci penseranno i meccanismi sociali a produrre integrazione. Una sorta di ordoliberismo sociale che si limita a registrare quanto avviene nelle pieghe della vita quotidiana. Questa colpevole reticenza, frutto non solo della paura ma anche di un pigro conformismo intellettuale, ha fatto sì che la sinistra sia stata percepita come incapace di rassicurare, paralizzandone la capacità d’iniziativa.

Ora la transizione demografica, il mercato del lavoro, la dignità umana delle persone, rendono ineludibile la questione. Ma perché la discussione decolli occorre guardare non solo al tema della cittadinanza ma anche al futuro di un’Italia non più omogenea culturalmente.

Quello che spaventa parte della società italiana è il dopo, l’inconoscibile. Ed è su questo punto che vanno fornite rassicurazioni, oltre che la dimostrazione di saper governare un mutamento tanto ineluttabile quanto non semplice. È così che si misura la capacità di guida di una classe dirigente.

in la Repubblica, 13 agosto 2021

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