Danilo Dolci. Cent’anni del Gandhi italiano

PAOLO DI STEFANO

Siamo in un’era archeologica con Danilo Dolci. O almeno potrebbe sembrare. Eppure, Dolci nacque solo cent’anni fa a Sesana, in terra allora friulana oggi slovena, e morì a Trappeto (Palermo) nel 1997. A Trappitu, un paese nel golfo di Castellammare, suo padre era stato trasferito come capostazione nel 1940 e il giovane cattolico Danilo si lasciò affascinare prestissimo dal rapporto di fraternità che la gente del posto intratteneva con le piante. In un’intervista Dolci raccontò che, non appena scoprì il mondo dei banditi, per «capire la situazione» decise di immergersi in quel contesto di disperazione, povertà, fame, sottosviluppo. Ciò che Dolci capì è che bisognava provare a cambiare qualcosa, e da quel momento si impegnò in tutti i modi, lavorando sul campo, discutendo, protestando, digiunando, scrivendo lettere, manifesti, articoli, volantini, opuscoli, resoconti, racconti, poesie.

Da ragazzo Dolci aveva rifiutato di vestire la divisa dei repubblichini, dopo la guerra a Roma seguì le lezioni del teologo modernista Ernesto Buonaiuti, si iscrisse al Politecnico di Milano, conobbe Bruno Zevi; nel frattempo a Sesto San Giovanni insegnava in una scuola serale per operai, dove nacque l’amicizia con Franco Alasia. Erano i primi esperimenti di quella maieutica educativa che Dolci svilupperà in aree socialmente accidentate. Personalità curiosa e multiforme, empatica, si direbbe oggi, già alla fine degli anni Quaranta Dolci cominciava a raccogliere consensi come poeta di afflato utopico e religioso (Mario Luzi sarà tra i suoi ammiratori). L’inquietudine sociale e il disgusto per le diseguaglianze lo spingono a lasciare gli studi di architettura e lo avvicinano a Nomadelfia, nella comunità per bambini abbandonati creata dal prete anarchico don Zeno Saltini. Da lì il passaggio in Sicilia.

Goffredo Fofi, suo sodale critico e poi scissionista, ricostruisce in Quante storie (libro bellissimo di vite ammirevoli impegnate nel «sociale») l’arrivo leggendario di Dolci a Trappeto e la sua prima attività comunitario pedagogica. Dal 1952 si stabilisce a Partinico, vicino a Montelepre, dove gli ex banditi orfani di Giuliano (ucciso nel 1950) erano disoccupati in bilico tra delinquenza, disperazione e mafia. Comincia per Dolci quella che Norberto Bobbio avrebbe definito «la via insolita e singolarissima del non accettare la distinzione tra il predicare e l’agire (…), ma di cominciare a pagare di persona». «Rivoluzione e subito», senza violenza: aprire asili, scuole, spazi di socialità, proporre nuovi sistemi di irrigazione e soluzioni sanitarie era l’idea operativa di Dolci. Bobbio additava quella operatività come esempio agli ideologi con pulpiti e cattedre, ai cattivi cristiani, ai moralisti, ai patrioti.

I modi e le ragioni sono ripercorsi in un libro di Giuseppe Barone (Danilo Dolci. Una rivoluzione nonviolenta, Altreconomia, nuova edizione 2024). Il primo digiuno di Dolci si realizza quando il piccolo Benedetto Barretta muore letteralmente di fame nel paese senza strade e con la fognatura a cielo aperto: la notizia della protesta, a cui aderiscono alcuni amici pescatori, si diffonde. Si mobilita la stampa e la Regione interviene con qualche promessa. Il Gandhi «siciliano» Dolci stabilisce un dialogo a distanza (e poi da vicino) con l’altro Gandhi italiano, il teorico e attivista della nonviolenza Aldo Capitini (il carteggio tra i due, pubblicato nel 2009 da Carocci, è un documento formidabile per capire gli ideali pacifisti tra anni Cinquanta e Sessanta).

L’impegno di Dolci in Sicilia è contro la fame ma anche contro l’analfabetismo, la povertà, la malattia, la disoccupazione, la vergognosa mancanza d’acqua, la violenza e il controllo mafioso, l’abbandono, la latitanza della politica. Certe case, scrive Dolci, «sono in tali condizioni che un veterinario ne sconsiglierebbe l’uso alle vacche». Ricorda di aver accolto nell’asilo due bambine di tre e cinque anni che «abitavano in un porcile di tre metri per due e ottanta con due altre sorelline, padre e madre e il porco, titolare dell’ambiente». Scopre che esistono villaggi in cui si vive, anche d’inverno, in capanne di paglia.

Se non c’era violenza, serviva la fantasia. Che a Dolci non mancava, così come non gli mancava l’energia comunicativa (comunicazione era per Dolci l’opposto della trasmissione dall’alto). Nel 1955 esce per Laterza Banditi a Partinico, in cui fa parlare, con la loro precisa espressività dialettale, pescatori, braccianti, vaccari, pastori, ambulanti. Ripubblicato dalla Sellerio con le fotografie originali di Enzo Sellerio, è un libro straordinario, da leggere nelle scuole. La prima edizione viene accolta con sorpresa anche dalla critica, che accosta Dolci a Carlo Levi e a Rocco Scotellaro: in effetti, ci vuole orecchio e pietà per dare voce esatta alla povera gente (verranno dopo le «autobiografie della leggera» di Danilo Montaldi e le «guerre dei poveri» raccontate da Nuto Revelli). Fatto sta che ogni strumento è buono per la lotta.

È Dolci a organizzare la protesta collettiva contro i pescatori di frodo sulla spiaggia di San Cataldo. È lui ad animare uno sciopero alla rovescia: lo sciopero dei disoccupati che, diversamente dagli operai occupati, scioperano lavorando, cioè sistemando le «trazzere vecchie». È lui che attrae l’interesse di Sartre, di Russell, di Huxley, di Piaget e l’ammirazione di Silone, di Jemolo, di Piovene, di Ernesto Rossi, di Sylos Labini, di Calamandrei, di Vittorini, di Zavattini… È contro la sua idea di ribellione che si mobilitano lo Stato democristiano, le gerarchie ecclesiastiche, la polizia: durante lo sciopero verrà arrestato per resistenza a pubblico ufficiale e istigazione alla disobbedienza. Per ultima interviene la giustizia, con un processo che farà storia e al termine del quale, nonostante le solidarietà internazionali e le adesioni di tanti giovani, Dolci viene condannato a 50 giorni di carcere.

Sarà una lunga storia, bollata dagli avversari via via come eversiva, velleitaria, equivoca, interessata (tra le qualità di Dolci non mancava certo la capacità persuasiva e anche autopromozionale): come spesso accade in Italia di fronte alla protesta costruttiva e pacifica che profuma di rivoluzione. Fofi, che non risparmia critiche al protagonismo anche autoritario di Dolci, ricorda che in quegli anni Adriano Olivetti immaginava un’utopia industriale moderna. Nel grande progetto di pianificazione pensato da Dolci, verrà nel 1963 la diga sul fiume Jato, un’altra iniziativa comunitaria, passata alle cronache come la battaglia per l’acqua democratica: ostacolata da minacce e denunce, fu messa su una specie di «autoanalisi popolare» che condusse a una presa di coscienza sul valore anche simbolico dell’acqua e infine a un autentico sviluppo socioeconomico per la regione.

Fu una peripezia collettiva, quella di Dolci. Con una serie di amici e sodali e compagni di lotta affascinati (e talvolta irritati) dal suo carisma indubbio. Tra questi, il più mite Alasia, con il quale (e con Pino Lombardo) avrebbe creato Radio Partinico libera, la «radio clandestina della nuova resistenza» che il 25 marzo 1970 trasmise l’allarme sulle condizioni disperate in cui le popolazioni del Belice versavano a due anni dal terremoto, ancora costrette nelle baracche: «Qui si sta morendo perché mancano le case, qui si sta morendo perché manca il lavoro, qui si sta morendo perché manca acqua…». La radio dei poveri cristi durò 27 ore prima di essere sequestrata.

Ora la lunga peripezia di Dolci verrà ricordata a Stromboli dal 29 giugno all’8 luglio nella decima edizione della Festa di Teatro Eco Logico con spettacoli, laboratori, incontri.

in “Corriere della Sera” del 12 giugno 2024

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