Angeli in congedo per aiutare gli ultimi della terra

ELEONORA CAMILLI

Soltanto da pochi giorni Gaia Giletta, 33 anni, ha ripreso a lavorare al pronto soccorso pediatrico. Ma come ogni volta, ricominciare è difficile. Specialmente quando si ha ancora l’orrore negli occhi. Negli ultimi due mesi il suo ambulatorio è stato in mezzo alle macerie di Gaza. «Quello che ho visto è difficile da accettare. I bombardamenti israeliani hanno colpito la popolazione oltre ogni misura. Manca tutto: l’acqua, il cibo, lo spazio, le cure» racconta l’infermiera, mentre infila la divisa per iniziare il turno all’ospedale di Torino.

«Lì il sistema sanitario è al collasso e la sproporzione tra i bisogni umani e la capacità di intervenire è immane». Anche per questo, dice, ha preso la decisione di partire. Non è la prima volta che va in missione con Medici senza frontiere per offrire la sua competenza medica nelle zone di crisi. Prima della Palestina, c’erano stati Haiti, lo Yemen e l’Afghanistan. E ogni volta per potersi assentare dal lavoro ha preso un’aspettativa umanitaria. Un congedo dal lavoro che, al pari di quello per motivi familiari, permette di assentarsi per un periodo, conservando però il proprio impiego. Solo che in questo caso non ci si prende cura dei propri cari, ma degli ultimi del mondo, delle persone, cioè, che vivono in contesti di guerra o di grave crisi.

Previsto dalla legge, il congedo umanitario è però uno strumento ancora poco conosciuto. Eppure chi decide di mettersi in gioco dove c’è più bisogno, spesso fa la differenza sul campo, specialmente nel caso di medici e infermieri. Per gli operatori sanitari dal 2010 lo strumento è previsto dal contratto nazionale, nei casi di emergenza o di cooperazione con i Paesi in via di sviluppo. Viene concesso, a discrezione dell’azienda, bloccando la retribuzione, per un massimo di dodici mesi nel biennio, da fruire anche in maniera frazionata.

In generale, per tutti dipendenti pubblici, vale la legge 125 del 2014 sulla cooperazione internazionale per lo sviluppo. Il periodo in cui ci si può assentare dal lavoro è al massimo di quattro anni, eventualmente rinnovabili. Per chiedere l’aspettativa basta fare domanda all’azienda, allegando un’attestazione rilasciata dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (Aics) e la richiesta dell’Ong o dell’associazione con cui si vuole stipulare il contratto.

Stando ai dati dell’Aics, negli ultimi mesi, da settembre 2023 a maggio 2024, sono state circa 130 le richieste arrivate dai dipendenti pubblici. Ma i dati sono parziali e al ribasso, perché non tutte le amministrazioni conoscono la procedura corretta per attivare l’aspettativa umanitaria. Alle criticità di tipo burocratico si aggiungono poi quelle pratiche. «Ogni volta che parto rimango colpita dalla solidarietà di colleghi e colleghe perché c’è da rivedere il piano turni – aggiunge Giletta di Msf –. Vado in Paesi dove ci sono difficoltà e bisogni enormi, ma questo non vuol dire che anche nel mio ospedale non ci siano urgenze. Il sistema sanitario è in crisi anche qui e le carenze sono importanti. Ma ho colleghi che capiscono le motivazioni profonde della mia scelta».

C’è poi chi ormai è diventato un mago nell’organizzare le trasferte. Roberto Scaini, 51 anni, fa il medico di famiglia a Misano Adriatico e da 13 anni prende regolarmente il congedo umanitario per partire con le missioni di Msf. Ne ha collezionate almeno 30 tra lo Yemen, il Sud Sudan, l’Etiopia, il Congo, la Bolivia. «I miei pazienti ormai lo sanno, sono abituati, prima o poi riparto. Nei periodi in cui io non ci sono mi preoccupo di cercare un sostituto per tenere aperto l’ambulatorio – racconta –. Negli anni alcuni si sono allontanati, ma tanti mi hanno detto: dottore io vengo da lei proprio perché so quello che fa». La fortuna, aggiunge Scaini, è «aver instaurato un buon rapporto con la Asl che è sempre disponibile a trovare una soluzione». Non tutti, però, sono riusciti a fare un’esperienza umanitaria in maniera semplice. Luca Radaelli per continuare a partire con Emergency si è dovuto licenziare dall’ospedale Sacco di Milano dove lavorava come infermiere.

«La prima volta ho preso un’aspettativa per andare in Afghanistan, sette anni fa – racconta –. Da tempo volevo provare a dare una mano in un contesto di emergenza, poi però l’impatto emotivo di quella scelta è stato talmente forte e non ce l’ho fatta a tornare indietro. Ogni volta che riprendevo il mio lavoro pensavo a organizzare la missione successiva. A un certo punto, però, l’Italia aveva sospeso la possibilità di accedere a questo tipo di congedo e per me la scelta è stata obbligata: ho lasciato l’impiego a tempo indeterminato per lavorare stabilmente con l’organizzazione».

Oggi le persone che lavorano con Emergency rappresentano il 15% dello staff sanitario tra Afghanistan, Sierra Leone, Uganda e Iraq. «In una delle prime missioni sono diventato coordinatore sanitario dell’ospedale di Kabul – racconta Radaelli –. Un giorno incontrai Gino Strada. Ero emozionato. Gli chiesi di darmi un feedback, lui mi rispose semplicemente: “Porteresti uno dei tuoi cari a farsi curare qui? Se la risposta è sì, stai facendo un buon lavoro”. Non l’ho mai dimenticato e negli anni ho cercato di portare lo stesso livello di cura e attenzione negli ospedali in cui ho lavorato. Anche nei contesti più difficili e crudeli del mondo».

in La Stampa, 13 giugno 2024

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