Kafka, un grande ma cattivo maestro?

MARCELLO VENEZIANI

E se Franz Kafka fosse un cattivo maestro? Se la sua opera, pur grandiosa, avesse contribuito a rendere il mondo più disperato e cupo, più desolato, prigioniero del suo vuoto e del suo niente? 

Ieri (03 giugno 2024) è stato il centenario della sua morte e sul grande scrittore boemo da mesi è un diluvio ininterrotto di pubblicazioni e di elogi.   E se invece cambiassimo prospettiva, abbandonassimo i panegirici e l’agiografia e ci interrogassimo sul suo lascito d’autore e sulla sua incidenza? Kafka ha testimoniato che si può fare letteratura non solo sui sogni ma anche sugli incubi, e si possono lasciare segni sui lettori anche non suscitando emozioni ma lasciandoli impietriti. La letteratura con Kafka non dona bellezza, non consola, non ripara, non aiuta a rifugiarsi in altri mondi ma descrive, scarna e asciutta, l’inesorabile dominio del male e l’impossibilità di sottrarsi alla sua ferrea sorte.

Qualche anno fa nel Grande ospizio occidentale Eduard Limonov definì l’opera di Kafka “letteratura austrungarica di terz’ordine spacciata per opera profetica” fino a esaltare come un genio “un nevrotico impiegato di assicurazione”. Stroncatura impietosa e ingiusta. Più ragionevole invece la lettura “scorretta”, come egli stesso la definì, del filosofo Gunther Anders (al secolo Stern) nel 1951 in un testo intitolato Kafka, pro e contro, tradotto in Italia da Quodlibet. Una critica severa, implacabile, da ebreo a ebreo, che suscitò l’indignazione dei kafkiani, a partire dal custode dell’opera kafkiana, Max Brod, l’amico di Franz che forzando la volontà dell’autore volle pubblicare alla sua morte quello che Kafka non voleva mettere al mondo. 

Anders innanzitutto ritiene che Kafka fosse pervaso da un narcisismo negativo, masochista. La sua analisi parte da una dichiarazione kafkiana che lo conferma: situandosi fuori dal cristianesimo ormai declinante nella sua epoca e fuori dalla religione ebraica, Kafka nel quarto quaderno dice di sé: “Io sono fine o principio”. Egocentrismo cosmico, simile ai deliri dell’ultimo Nietzsche. 

Quel che Anders reputa raccapricciante in Kafka è che i protagonisti dei suoi romanzi si trovino in situazioni assurde e angoscianti, ma le vivano come se fossero normali. Quando Gregor Samsa si sveglia da scarafaggio, non esprime sconcerto, dolore o rabbia, ma accetta quella condizione senza sgomento. Non è l’irruzione del male il tratto dominante della narrativa di Kafka ma l’assenza di ogni reazione, resistenza, ribellione o rifiuto, da parte delle vittime, che si adeguano alla condizione in cui precipitano. Un realismo assoluto, grottesco, disumano, subito con ottusità trascendentale. Kafka sacrifica l’intelligenza e la ragione, ma anche ogni senso civico e politico. E questo, per Anders, va deplorato. Traduco: è un cattivo maestro. Le vittime dei suoi racconti collaborano coi carnefici, accettano la tortura: si sentono esclusi dal mondo, privi di diritti e di doveri, in torto.

La critica è lucida e affilata ma poi esagera quando accusa Kafka di essere un precursore del fascismo, perché lo giustificherebbe ante litteram scrivendo “a favore dell’ubbidienza cieca e assoluta” e sacrificando l’intelligenza. Anders compie una forzatura simmetrica ai kafkiani che videro al contrario nella sua opera una denuncia ante litteram degli orrori nazisti. La sua opera non giustifica né denuncia quel che sarebbe poi accaduto; semmai dimostra che il male in terra non nasce col fascismo ma lo precede, anzi è connaturato al mondo; è la realtà.

La sua opera è il documento di un’epoca che ha perso la ragione e la religione, la speranza e la fiducia, il futuro e la tradizione. È la maledizione della vita, intesa come condanna e come prigione in cui non siamo chiusi dentro ma fuori. Esclusi. Siamo prima condannati e poi commettiamo il crimine. L’inversione kafkiana tra pena e delitto è la traduzione metafisica di quel che poi diventerà un cavallo di battaglia del socialismo: è la società, con le sue ingiustizie e diseguaglianza, che spinge a delinquere chi le subisce; la colpa non è del singolo, ma è della società e di chi ha potere. In Kafka è invece un cupo destino che incombe sull’uomo. 

Kafka, nota Anders, non crede nella Provvidenza e nel suo “ultimo, effimero nipote”, il progresso; non crede nella giustizia divina. La requisitoria è dura e si conclude con una sentenza senza appello: Kafka è un realista del mondo disumanizzato, di cui finisce per essere un apologeta; è un moralista impotente e inerme, è agnostico e ateo, non era credente ma non aveva il coraggio della propria irreligiosità; anzi, crede come Marcione in un Dio malvagio; comunque è un ateo che si vergogna di esserlo e fa dell’ateismo una teologia. Brod insorgerà contro questa sentenza, dirà che Anders si è creato un fantoccio e lo ha colpito, ma non c’entra niente col vero Kafka; lo riduce a servile disfattista e ateo, mentre per Brod è uno spirito religioso che critica le autorità intermedie ma non si pone fuori dall’ebraismo e dalla fede in Dio. A lui Anders replicherà che quella di Kafka era una religione senza credo; non è homo religiosus  ma “un grande scrittore di favole”.   

Insomma, Kafka è un grande scrittore ma un cattivo maestro. E nefasta è la scia dei kafkiani che ha lasciato. Ha insegnato che l’essere è il male, la vita è incubo assurdo; siamo nulla, viviamo nel nulla e non possiamo farci nulla. (Panorama, n.24)

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