Un grande business chiamato guerra

FRANCESCO ANFOSSI

La corsa agli armamenti sembra inarrestabile a scapito dei finanziamenti nel campo della sanità, della lotta alla fame e della tutela dell’ambiente, alimentando i conflitti, dall’Ucraina a Israele o all’Africa. E anche l’Italia fa la sua parte.

È l’economia più florida e redditizia del mondo, in crescita da decenni: più delle bigtech del digitale come Amazon o Microsoft, più dell’energia, più dell’alta finanza. I suoi titoli azionari fanno scintille e non conoscono congiuntura negativa. Stiamo parlando dell’industria degli armamenti, l’unico settore in cui l’offerta spinge la domanda, dove la domanda si chiama guerra. Con i conflitti in corso si sono ormai svuotati tutti gli arsenali e si continuano a produrre nuovi prodotti a ritmi forsennati.

Dalla caduta del Muro a oggi almeno 49 conflitti mondiali hanno alimentato gli altiforni dell’economia a mano armata. «La guerra è sempre una buona scusa per nuove commesse militari», spiega don Renato Sacco, storico animatore di Pax Christi. Le spese per gli armamenti sono di gran lunga superiori a quelle per l’istruzione, l’ambiente e la salute. E anche le banche fanno la loro parte, garantendo e alimentando la crescita dei titoli azionari.

Lo scorso anno, ci informa il Sipri (il prestigioso Istituto svedese di ricerche sulla pace, voluto da Olof Palme) le spese militari nel mondo hanno raggiunto i 2.240 miliardi di dollari. Di questi, 380 vengono spesi nei Paesi dell’Unione europea. Ne sarebbero bastati molto meno per sfamare il pianeta e mitigare gli effetti negativi dei cambiamenti climatici. Ma la logica della guerra sembra essere l’unica possibile: i costi bellici sono aumentati del 50 per cento negli ultimi 20 anni nei Paesi Nato, alimentati dal clima di insicurezza successivo all’11 settembre 2001, dal terrorismo islamico, dal moltipli  carsi di autocrazie, democrature e dittature, dai nazionalismi e separatismi, dalla crisi economica, dalle incrollabili logiche geopolitiche nascoste sotto il velo delle ideologie (o delle religioni, come nel caso della Chiesa ortodossa di Cirillo, che predica la “guerra giusta” di Putin).

La corsa agli armamenti è l’altra faccia del liberismo selvaggio: «Gli smisurati proventi dell’industria militare governano un potere che spinge all’incremento degli armamenti e al loro uso, per il solo motivo che qualcuno ci guadagna», scrive il fisico Carlo Rovelli nell’introduzione a un dettagliato rapporto sulle spese militari a cura di Greenpeace dal titolo Economia a mano armata 2024. L’Europa non è immune da questa spirale bellica, con le sue forniture di armi, munizioni, blindati e carrarmati Leopard. Prendiamo gli ultimi due più sanguinosi conflitti. In Ucraina siamo a oltre 500 mila vittime tra militari e civili. Finora l’Occidente ci mette le armi e Ucraina e Russia ci mettono i morti. Ma il presidente francese Macron preconizza già l’entrata sul fronte ucraino di militari della Nato.

Nell’Unione europea, mentre Austria, Irlanda e Spagna, praticano una politica di appeasement, l’Italia è allineata ai Paesi più bellicosi. Negli ultimi dieci anni le spese negli armamenti sono aumentate del 26 per cento. Tra l’altro è il terzo fornitore di armi a Israele (elicotteri e artiglieria navale),  anche se rappresenta lo 0,9 per cento delle importazioni dello Stato ebraico, per un totale di 13,7 milioni di euro. Tel Aviv può contare soprattutto sugli Stati Uniti con il 69 per cento delle forniture, dal sistema di difesa antimissile Iron Dome (quello che ha fermato l’attacco dei droni iraniani) agli F-35 che continuano a bombardare Gaza, praticando, come ha detto la BBC, «una delle campagne aeree più intense e distruttive della storia recente». Per rispondere alla carneficina di Hamas (oltre 1.200 morti, in gran parte civili) l’esercito di Israele ha provocato la morte a Gaza di 30 mila palestinesi, di cui, secondo dati Onu, il 70 per cento donne e bambini.

L’Italia è accusata di esportare armi anche nello Yemen, in violazione della nostra Carta, che vieta la risoluzione delle controversie internazionali attraverso i conflitti. Eppure dal punto di vista economico l’industria della guerra per un Paese è un cattivo affare, a parte i mercanti d’armi, naturalmente. In Italia una spesa militare di mille milioni di euro porta un aumento della produzione di 741 mila euro. Se venissero spesi per la salute, l’istruzione e l’ambiente, sarebbe di 1.900 milioni. Le previsioni di bilancio del ministero della Difesa nel 2024 indicano una spesa di 29 miliardi di euro, con una crescita di quasi un miliardo e mezzo dal 2023.

Lo Stato controlla i due colossi bellici italiani: Fincantieri (navi da guerra) e Leonardo (aeronautica, elettronica, armi terrestri), che nel 2023 ha registrato 15,3 miliardi di euro di utili, con 30 mila dipendenti. «Lo Stato italiano, attraverso il ministero dell’Economia, è il principale azionista di Leonardo e praticamente l’unico azionista di Fincantieri, i due colossi della produzione militare italiana.

È pertanto evidente l’interesse dei governi non solo a sostenere, ma a favorire e incentivare le esportazioni militari», spiega Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio permanente sulle armi leggere e le politiche di sicurezza e difesa (OPAL) di Brescia. Secondo la Rete italiana per la pace e il disarmo, «l’umanità si trova a un bivio in cui le decisioni politiche sui bilanci della difesa determineranno la traiettoria delle molteplici crisi in cui siamo immersi. Disgraziatamente i governi stanno scegliendo di aumentare drasticamente i fondi armati e, di conseguenza, anche il pericolo di una guerra globale». Nessuno fa sua la logica di Erasmo da Rotterdam, secondo cui «è sempre meglio una pace ingiusta che una guerra giusta».

in Famiglia cristiana, 14 maggio 2024

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