L’odio toglie spazio alla ragione, siamo nella dittatura delle emozioni

MARIO GIRO

Lo spirito del tempo spinge a odiare sempre di più perché l’odio sembra la cosa più vera. Questo sentimento pare diventato una ovvia necessità, talvolta quasi una virtù civile anche se alla fine si ritorce sempre contro chi l’ha prodotto. Nessuno ne è immune

C’è troppo odio in giro, e la sua onnipresenza ci acceca. In genere si pensa che sia il prodotto di una situazione oggettiva che non controlliamo, ma è vero il contrario: più si odia e più si creano le condizioni perché l’odio esploda.

Sui grandi temi internazionali e sulle crisi globali ci si combatte con astio allo scopo di generare sempre altro odio. In tali situazioni sono pochi coloro che continuano a ragionare mantenendo una certa lucidità, e pochissimi riescono a resistere allo spirito del tempo che spinge a odiare sempre di più. Si richiede a ciascun uomo, partito, popolo o nazione di schierarsi, di decidere chi è il proprio nemico e di odiarlo senza tregua.

Pace, dialogo, confronto, conoscenza dell’altro, tolleranza, comprensione: sono tutti temi che non hanno più spazio se non per anime belle e ingenue. L’odio sembra la cosa più reale e più vera. Lo stimolo dominante è l’esaltazione della contrapposizione e la dittatura dell’emozione. Mostrare le fotografie o i video degli orrori quotidiani a cui siamo costretti ad assistere – le soldatesse israeliane rapite, ferite e umiliate, i bambini di Gaza affamati e uccisi, i civili africani sterminati da milizie o jihadisti, le religiose rapite, le città rase al suolo, ecc. – non serve ad aumentare la nostra consapevolezza o a farci indignare, ma diventano uno spin diretto ad aumentare l’odio e a eccitare le tifoserie.

«Malattia dell’anima»

Etty Hillesum aveva riconosciuto questo odio nei lager: un sentimento che diviene indifferenziato, cioè verso tutto e tutti coloro che non sono “dei nostri”. Un odio «malattia dell’anima» che trascina nel gorgo infinito della guerra. In tale contesto è d’obbligo resistere: questa è la vera nuova resistenza da compiere. Dobbiamo fare in modo che siano preservati gli spazi di bene e di buono, che sia conservata la disposizione verso il bene e la pace. Non si tratta di una pia illusione o di buonismo, ma di sopravvivere e opporsi a una logica che rende schiavi.

«Se il nostro odio ci fa degenerare in bestie come lo sono loro», scriveva Hillesum prendendo spunto dai nazisti, «non servirà a nulla». Lo sappiamo ma ce ne dimentichiamo. Tornare a riflettere sui pensieri di chi visse il “grande male” del nazismo e della shoà è utile a scuoterci dalle emozioni del presente. Diceva ancora Etty Hillesum (profeticamente): «Dopo la guerra due correnti attraverseranno il mondo: una corrente di umanesimo e un’altra di odio. Allora ho saputo di nuovo che avrei preso posizione contro quell’odio».

Questo deve essere il programma comune europeo: prendere posizione contro l’odio e immettersi nella corrente dell’umanesimo. Prima ancora della pandemia e delle grandi guerre ucraina e mediorientale, il cardinale Matteo Zuppi aveva pubblicato un libro sulla malattia spirituale della nostra epoca – Odierai il prossimo tuo – con il coraggio di denunciare tutti gli aspetti dell’odio (anche quello dentro la chiesa). Con uno sguardo mai rassegnato e la sua ben nota positività, il cardinale scriveva: «L’odio che si respira nella nostra società, l’odio che sembra diventato un’ovvia necessità – persino una virtù civile, almeno sulla bocca di qualche voce autorevole – potrebbe rivelarsi non solo una tentazione a cui resistere ma un’occasione preziosa per riscoprire con rinnovata energia il grande valore della fraternità, unico materiale che può rendere solida la nostra casa comune».

La paura

In effetti una parte di questo odio nasce dalla paura, quella di non avere più una casa solida, fosse la società, il paese o l’Europa. La paura è una vecchia compagna che si è fatta veleno sottile e silenzioso e ha ucciso molte speranze. Tutto ciò che accade è visto come una minaccia: la paura spinge a non procreare, a non pensare alla vita dopo la propria, a temere il futuro, a non accettare il disagio degli altri, a non sopportare la presenza dei poveri, a non considerare le diversità… La paura costruisce muri, gabbie, barriere, difese.

Basta pensare alle reazioni alla pandemia (e a tutto l’odio scatenato nella polemica sui vaccini che ancora continua) o alle guerre attuali ma anche alla trasformazione dei giudizi sull’Europa (una volta protettrice, ora causa di tutti i mali…). La paura spinge a cercare/creare un colpevole per odiarlo. Non avere paura è difficile: non si può ordinarlo o decretarlo. Bisogna con pazienza ricostruire – qualcuno usa la parola “ritessere” o “rammendare” – la fiducia scomparsa dentro le società o tra le nazioni. Come sarà possibile farlo tra russi e ucraini, tra palestinesi e israeliani?

Ecco perché parlare di pace e celebrarla è utile e non ingenuo: serve come materiale per ricostruire la fiducia e sciogliere la paura. Avere stima del dialogo come metodo del convivere serve a tutti. La nostra vita comune è fatta di tanti aspetti ed elementi diversi: la famiglia, il lavoro, città dove viviamo, la regione, le idee politiche, la religione, l’Italia, l’Europa, le contese, l’economia, il mondo…. Ci stiamo abituando sempre di più a pensare che vivere con gli altri – soprattutto se diversi e/o stranieri – sia un’impresa difficile se non impossibile.

Solitudine

«L’inferno sono gli altri», diceva Sartre. Ci si incammina così per una via solitaria: solitudine per le persone, isolamento per gli stati, separazione tra le culture e le religioni. Vivere insieme è da sempre la sfida dell’umanità. Nella storia, dopo le grandi guerre, rinasce sempre la coscienza del destino comune che lega persone e popoli: nessuno è un’isola. Poi però l’eccitazione delle emozioni, il bisogno di schierarsi, l’impulso per l’identità uccidono tale volontà e separano di nuovo. L’idea d’Europa nasce dopo due guerre mondiali, maturando lentamente tra le élite per diventare a un certo punto un sentimento diffuso e popolare.

Alla fine degli anni Quaranta del secolo scorso il desiderio di pace era quasi un’ovvietà: basta guerre fra di noi! Jamais plus la guerre!, come disse Paolo VI alle Nazioni unite. Ma poi si è dimenticata tale regola saggia e si sono fatte tante altre guerre, sempre con delle giustificazioni: le guerre coloniali, di liberazione e indipendenza; quelle arabo-israeliane e del Medio Oriente; i conflitti legati allo scontro bipolare; quelli etnico-regionali, fino a giungere alle guerre dell’estremismo religioso e identitario e alla guerra al terrorismo. Non c’è da sorprendersi se, educato a tale scuola dell’odio e della contrapposizione, l’uomo contemporaneo abbia ceduto interiormente e oggi accetti come naturali i grandi conflitti ucraino o a Gaza o le numerose guerre d’Africa. Sempre la Hillesum scriveva: «Convinciamoci che ogni atomo di odio che aggiungiamo al mondo lo rende ancor più inospitale».

È una saggezza che vale per tutti: seminare odio crea le condizioni perché quell’odio si ritorca contro di sé. Nessuno è immune dalla grande pandemia dell’odio. Giustamente ci lamentiamo tutti dell’hate speech nei social media e ormai anche sui media. Ma la malattia è più profonda: abbiamo lasciato il veleno insinuarsi dentro di noi, nelle persone, nelle società, nei paesi, accettando il male come un fenomeno naturale. Non lo è, come non lo è la guerra. L’odio deve essere considerato inaccettabile: una patologia che distrugge allo stesso tempo chi lo provoca e chi ne è oggetto. L’odio provoca l’ira e acceca: ciò vale per le persone, come per le comunità e gli Stati. Nessuna passione, nessun ideale potrà mai giustificare l’odio.

in “giornale”

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