Il valore di ogni vita

TAHAR BEN JELLOUN

«Ogni vita ha lo stesso valore». Questo dice il diritto. Non ci sono vite più importanti di altre. Lo dice la morte. Ma l’uomo non è d’accordo.

Ed è così che, dall’inizio della guerra contro Hamas, Netanyahu continua a ricordarci che la vita di un israeliano è più importante di qualunque altra. Lo dice con le parole, con le armi e con i bombardamenti, che hanno ucciso molti civili. Dice: «devo sradicare Hamas». Il suo esercito bombarda città, scuole, ospedali, impedisce il transito dei convogli umanitari, affama la popolazione di Gaza e niente sembra poterlo fermare.

Quando gli si domanda «dopo aver ucciso quanti palestinesi riterrete di aver ottenuto la vostra vendetta?» risponde «uccideremo fino all’ultimo sostenitore di Hamas». Quando il TPI (il Tribunale penale internazionale) chiede ai giudici di emettere mandati di arresto contro Netanyahu e il suo ministro della difesa da una parte e contro i tre dirigenti di Hamas dall’altra, Israele grida, quasi unanime, all’antisemitismo. Abbiamo sentito quel grido anche in Europa. «Come osano mettere sullo stesso piano un paese democratico e un movimento terrorista?». Quando, il 7 ottobre 2023, i miliziani di Hamas hanno commesso un crimine terribile contro gli abitanti di un kibbutz e contro i giovani che partecipavano a un festival, il mondo, o quasi tutto il mondo, è inorridito e io personalmente ho espresso i miei sentimenti e condannato il massacro senza ambiguità. Ciò mi è valso minacce di omicidio da parte di un ex primo ministro islamista marocchino. Sapevo quali sarebbero state le conseguenze di quell’attacco.

Decine di migliaia di morti. Oggi si parla di più di 30.000 morti, di cui 12.000 bambini. Senza contare i numerosissimi feriti. La domanda da porsi è se, politicamente, l’attacco del 7 ottobre «merita» di avere un costo tanto elevato. È vero che il 7 ottobre ha risvegliato la causa palestinese. Non si era mai vista tanta solidarietà con la Palestina nei campus delle grandi università americane, inglesi e persino francesi. La causa era stata dimenticata. I dirigenti dormivano, confortati dal denaro inviato dalla comunità europea, denaro che alcuni sembra abbiano sottratto.

Oggi di quella causa si sono appropriati i giovani in cerca di un obiettivo. Una vita vale una vita. Questo dicono le proteste degli studenti in tutto il mondo. In Francia i giornalisti e la maggior parte dei politici rifiutano di usare la parola «genocidio» per descrivere ciò che sta succedendo a Gaza. Sul quotidiano israeliano di sinistra Haaretz , lo scorso 14 gennaio, un osservatore israeliano, Gideon Levy, ha scritto: «Supponendo che la posizione di Israele all’Aia sia giusta e legale e che Israele non stia commettendo un genocidio o qualcosa di simile, di che cosa si tratta? Come chiamereste voi le uccisioni di massa? Si tratta di una discriminazione senza limiti e su una scaladifficile da immaginare». (Lo cita Elias Sambar, che ha appena pubblicato per Gallimard il libro La dernière guerre?)

Le parole sono importanti. Dopo la Shoah, certe parole non possono essere usate per riferirsi ad altro. «Genocidio» è una di quelle. Ma per chi muore sotto le bombe, per le decine di migliaia di gazawi uccisi in modo metodico, non ha molta importanza quale parola si usa. La morte li ha coperti con un silenzio eterno. La situazione è in stallo. Le negoziazioni non portano da nessuna parte. Gli sfortunati ostaggi e le loro famiglie vivono un’angoscia profonda. Elias Sambar, ex ambasciatore palestinese presso l’Unesco, dice: «Non si fa nulla per evitare la corsa verso l’abisso». Poi lascia la parola al poeta Mahmoud Darwish: «Ci sono morti e colonie, morti e bulldozer, morti e ospedali, morti e radar per controllare chi è morto più di una volta nella sua vita, per controllare i morti che rinascono dopo la morte, i morti che nutrono la bestia della civiltà con la morte e i morti che muoiono per seppellire chi è già morto.»

Forse le Nazioni Unite, quando nel 1947 hanno creato lo Stato di Israele, una terra per due popoli, non immaginavano che la loro decisione avrebbe prodotto un conflitto che sarebbe durato quasi cent’anni! La situazione è in stallo, non c’è spazio per la speranza e l’odio fa buchi nelle menti e nella memoria. La brutalità dei bombardamenti su Gaza ha prodotto almeno una generazione di orfani che vorranno vendetta. L’attacco del 7 ottobre ha creato un precedente indimenticabile e altrettanto brutale. Come potranno i due popoli superare tanto reciproco odio?

Edgar Morin (che ha 102 anni!) il 22 gennaio scorso ha scritto su Le Monde : «è una tragica lezione della storia: i discendenti di un popolo perseguitato per secoli nell’Occidente cristiano, poi razzista, possono diventare al tempo stesso persecutori e bastione avanzato dell’Occidente nel mondo arabo. (…) La globalizzazione non ha creato alcuna solidarietà e le Nazioni Unite sono sempre più disunite». (Traduzione di Alessandra Neve).

in “la Repubblica” del 24 maggio 2024

Contrassegnato da tag ,