L’abbraccio fra l’israeliano e il palestinese. «Ascoltare il dolore per fermare le guerre»

VIVIANA DALOISIO e ANTONELLA MARIANI

L’Arena di Verona si ferma, in un silenzio surreale. Il momento è il più toccante in assoluto, nel senso fisico del termine: la storia di Maoz e Aziz, israeliano e palestinese, che venerdì abbiamo raccontato sulle pagine di Avvenire, scuote tutti quanti, fa accapponare la pelle, riempie gli occhi di lacrime. «I miei genitori sono stati uccisi il 7 ottobre da Hamas», racconta Maoz. «Mio fratello è stato ucciso subito dopo dai soldati israeliani», gli fa eco Aziz. Sono stretti l’uno all’altro, si tengono la mano, le alzano unite insieme: si sorreggono in un dolore indicibile, che sul palco davanti al Papa e ai diecimila e più dell’Arena in un istante materializza lo strazio della guerra in Medio Oriente e l’abbraccio che può farla finire.

Francesco è visibilmente commosso, passa i fogli al vescovo di Verona, Domenico Pompili, che gli siede a fianco, e inizia a parlare piano: « Davanti alla sofferenza di questi due fratelli, che è la sofferenza di due popoli, non si può dire nulla. Loro hanno avuto il coraggio di abbracciarsi e questo non solo è coraggio e testimonianza di volere la pace, ma anche è un progetto di futuro. Abbracciarsi». Non finisce così: Maoz e Aziz gli vanno incontro timidi (la scaletta non lo prevede), il Papa si alza lentamente per abbracciarli davvero, come un padre farebbe con due bambini dopo una lite. Il silenzio del pubblico si scioglie in un applauso infinito: eccola la pace possibile, eccolo l’abbraccio che cambia il mondo.

Il momento condensa quasi due ore di interventi che uniti insieme, dalla Terra Santa all’Afghanistan, dalla Russia al Brasile fino all’Italia, costruiscono per la prima volta una geografia della speranza nel dibattito sulla pace: ci sono proposte concrete, ci sono “costruttori” pronti a fare rete, ci sono convergenze finalmente tra le anime variegate del pacifismo. Sempre dal Medio Oriente sono stavolta le parole delle donne a risuonare nell’Arena. Le voci arrivate via video dalle rappresentanti di Woman Wage Peace, la stessa organizzazione di donne israeliane di cui è stata fondatrice Vivien Silver, uccisa sempre da Hamas il 7 ottobre, e quelle delle “sorelle” palestinesi di Women of the Sun: «Stop all’eccidio con una azione politica coraggiosa, facciamo crescere una nuova speranza», dicono. E hanno voluto siglare insieme un documento: «Noi madri palestinesi e israeliane siamo unite dall’umano desiderio di un futuro di pace, libertà, uguaglianza, diritti e sicurezza per i nostri figli e per le prossime generazioni. Ai nostri leader chiediamo di ascoltarci e di iniziare subito i negoziati. Mostrino coraggio e visione».

Un altro manifesto viene presentato dalle 160 organizzazioni per la pace israeliane e palestinesi che compongono l’Alleanza per la pace in Medio Oriente ed è rivolto ai leader del G7 che si svolgerà a metà giugno in Puglia, perché «riconoscano l’importanza del lavoro di costruzione della pace da parte della società civile». Poiché la pace duri – continua il manifesto – deve essere costruita dalle fondamenta: «Ai negoziati tra leader di governo devono essere affiancati da un processo di costruzione della pace che coinvolga la società civile israeliana e palestinese». Ecco la pace che si fa dal basso, ecco la pace di chi la vive ogni giorno, andando controcorrente rispetto alla guerra che incombe.

E poi c’è il manifesto per la pace di Verona che viene letto integralmente da padre Alex Zanotelli, ciò che rappresenta il punto di partenza di un’Arena di pace che per i movimenti popolari e la società civile italiani deve continuare a camminare a passi decisi sui territori e trasformarsi in azione politica. «Vogliamo essere ascoltati» ripetono i delegati dei tavoli che si alternano sul palco raccontando il risultato del loro confronto e poi rivolgendosi al Papa, ponendogli domande, ripetendogli: «Non sei solo, noi siamo con te».

Il documento chiede con forza un cambio di rotta nella gestione delle trattative di pace: «Il punto di vista deve diventare quello delle vittime, di tutte le vittime e di tutte le forme di violenza e di esclusione: bambini, donne, persone malate, anziane, povere, con disabilità, profughe, rifugiate». Sono le persone che vengono uccise, sono quelle che ai tavoli non hanno spazio né voce. Ecco perché «incontrare, condividere il dolore altrui, ascoltare la voce dei testimoni degli orrori delle guerre – insiste il manifesto – è l’unico modo di porre fine ad ogni forma di guerra e di violenza».

in “Avvenire” del 19 maggio 2024

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