La politica suicida di Netanyahu

MANLIO GRAZIANO

Israele sta mettendo in atto un lungo suicidio.  Il che non significa però che un’altra creatura politica – la Palestina – ne erediterà le terre e il trono. E il «diritto internazionale» si impiglia nelle sue insanabili contraddizioni.

Due errori

Come si sa, gli Stati Uniti hanno sospeso l%u2019invio di alcune armi a Israele, anche se «miliardi di dollari di armi statunitensi sono ancora in corso di spedizione, tra cui proiettili per carri armati e kit che trasformano le bombe a caduta libera in armi di precisione», come ricorda The Times of Israel del 10 maggio.

Tra le varie reazioni a quello che sembra essere poco più che un gesto simbolico essenzialmente a uso della politica interna americana, si segnala quella del primo ministro Benjamin Netanyahu, per il quale Israele proseguirà la sua guerra «anche da solo», «come nel 1948», all’epoca della prima guerra contro gli arabi.

Netanyahu sa che la sua affermazione contiene due errori.

Il primo è che Israele non è stato abbandonato: il grande amico americano, benché contrariato e messo in difficoltà, continua a fornirgli aiuto politico, diplomatico, economico e soprattutto militare. Il secondo è che, nel 1948, Israele era tutt’altro che solo, anzi, aveva quasi tutte le potenze dell’epoca dalla sua.

Nel 1948, la nascita di Israele fu resa possibile dal sostegno dell’Unione Sovietica, innanzitutto, ma anche gli Stati Uniti e la Francia. Abba Eban, ministro degli Esteri tra il 1966 e il 1974, ebbe a dichiarare che l’URSS fu la sola potenza a sostenere il suo Paese: era un’esagerazione, probabilmente polemica, perché Washington e Parigi si spesero ugualmente sia per ottenere il via libera delle Nazioni Unite alla creazione di uno Stato ebraico in Palestina nel novembre 1947, sia per facilitare l’invio di armi russe agli israeliani, via la Cecoslovacchia, nonostante il formale embargo.

Il supporto di russi e americani (i francesi, allora, pesavano poco, ma erano comunque la seconda potenza coloniale del mondo) nel 1947-1948 vuole dire che coloro che dirigevano gli affari internazionali all’epoca, a eccezione di un Regno Unito in estrema difficoltà, stavano con Israele.

I palestinesi abbandonati da sempre

Al contrario di oggi, nel 1948 fu la popolazione araba di Palestina (quelli che oggi sono chiamati palestinesi con una stiracchiata metonimia politica) a non essere sostenuta da nessuno. Non da Londra, che foraggiava invece la Legione araba transgiordana; e neppure dai paesi arabi ingaggiati nel conflitto (Egitto, Siria, Libano Iraq, Yemen, Arabia Saudita e, appunto, Transgiordania), ognuno dei quali, convinto di «gettare gli ebrei in mare» in pochi giorni, puntava a conquistare per sé la Palestina.

Anzi, alla popolazione araba fu suggerito di abbandonare provvisoriamente il paese finché non cessassero i combattimenti, per poi tornare una volta ottenuta la vittoria. Circa il 45 per cento dei profughi di allora fu vittima di quella illusione; gli altri, il 55 per cento, furono cacciati dagli israeliani (secondo dati forniti da Tsahal, l’esercito israeliano), e tutti furono sistemati in campi profughi sotto amministrazione araba e lasciati lì per quasi ottant’anni.

È quantomeno curioso che nessuno si chieda perché i palestinesi siano gli unici profughi dell’immediato dopoguerra a essere rimasti tali.

Seppur tra mille difficoltà e tragedie personali e collettive, tredici milioni di tedeschi espulsi dall’Europa centrale e orientale sono stati integrati in Germania, nonostante le condizioni in cui si trovava il paese dopo la guerra. Così pure venticinque milioni di profughi indù e sikh cacciati dal Pakistan e venticinque milioni di profughi musulmani cacciati dall’India nel 1947. Così pure i trecentomila profughi istriani e dalmati o il milione di pieds-noirs… E la lista potrebbe essere lunga.

Non solo nessun paese arabo li ha integrati, nonostante la comunione linguistica e religiosa, ma anzi molti li hanno combattuti e massacrati, primi fra tutti la Giordania e il Libano.

Il suicidio di Israele

Dopo il pogrom del 7 ottobre 2023, Israele aveva guadagnato la simpatia e la solidarietà di una gran parte del mondo. Scatenando la brutale e insensata guerra «per sconfiggere Hamas», non solo la simpatia e la solidarietà si sono dissipate, ma si sono trasformate in una rumorosa e ubiqua simpatia per i palestinesi, spesso estesa a Hamas e qualche volta estesa fino a rigurgiti di antigiudaismo.

Le ragioni di questa ondata pro-palestinese meriterebbero di essere indagate più approfonditamente, non foss’altro perché la sua giustificazione «umanitaria» zoppica: infatti, mai nessuna manifestazione è stata organizzata per le centinaia di migliaia di vittime del conflitto in Etiopia o per quelle della guerra civile in Sudan, dichiarata recentemente dall’ONU uno dei «peggiori disastri umanitari della storia recente».

Quasi nessuno sa neppure dove si trovi il Kivu dove centinaia di migliaia, forse milioni di persone sono state massacrate e continuano ad esserlo dal 2004 ad oggi, e dove i profughi si contano in milioni. E anche qui, la lista dei conflitti di cui nessuno si occupa potrebbe essere lunga.

Ma quello che ci interessa qui è che il massacro sistematico di decine di migliaia di persone nella striscia di Gaza non può che gettare i semi di un odio sempiterno dei sopravvissuti contro i loro aguzzini, come quello votato, per esempio, dagli armeni nei confronti dei turchi per un massacro di 99 anni fa.

Anche se il progetto di alcuni «falchi» israeliani (ma visto con simpatia da una gran parte della popolazione del Paese) di svuotare dagli arabi Gaza e anche la Cisgiordania andasse a buon fine, il risultato sarebbe inevitabilmente l’inizio di una nuova fase di guerriglia terrorista contro gli israeliani.

Se è vero che il terrorismo è l’arma degli sconfitti, è vero anche che Israele cesserebbe di essere quel safe haven per gli ebrei del mondo intero sognato dagli intellettuali sionisti agli inizi del Novecento.

La classe politica israeliana (non solo della destra), sostenuta dalla grande maggioranza della popolazione, è sul punto di realizzare un capolavoro di autolesionismo: la distruzione della stessa ragion d’essere di Israele.

I tartagliamenti delle Nazioni Unite

Il 10 maggio, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato (149 a favore, 9 contro e 25 astenuti) una risoluzione che riconosce la Palestina come possibile membro a pieno titolo dell’organizzazione. Un’altra mossa puramente simbolica perché, si sa, sarà bloccata al Consiglio di sicurezza.

Sulle questioni di diritto internazionale, l’Onu tartaglia: vorrebbe ammettere uno Stato che non c’è, ma non ammette certi Stati che ci sono (per esempio il Somaliland, Taiwan o il Kosovo), e ignora altri che vorrebbero avere uno Stato (i curdi, per esempio, o i baluci, o i cabili).

L’ambasciatore israeliano ha triturato simbolicamente la carta dell’Onu, con un gesto che ricorda gli spettacoli offerti da Gheddafi da quello stesso scranno, ma “dimentica” che il suo paese ha sistematicamente ignorato tutte le decisioni del Consiglio di sicurezza sui territori occupati nel 1967 e sul trattamento delle loro popolazioni, ultima delle quali la risoluzione del 26 marzo scorso che «imponeva» un cessate il fuoco immediato e il rilascio di tutti gli ostaggi.

Il diritto internazionale è sempre giocato dagli uni e dagli altri a proprio favore, rivelando così di non essere un diritto e di non essere internazionale. Al di là di questa banale osservazione, se i palestinesi dovessero contare sull’ONU per avere uno Stato, potrebbero cominciare a prepararsi ad altri ottant’anni di campi profughi e di massacri, inferti da nemici come da amici, o sedicenti tali.

Non esiste oggi nessuna condizione che lasci immaginare la nascita di uno «Stato palestinese», checché ne dica l’Assemblea generale dell’ONU: innanzitutto manca una classe dirigente palestinese, manca palesemente un territorio e infine manca la volontà.

  • Dal Substack di Stefano Feltri, Appunti, 14 maggio 2024
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