Apologia delle armi

CATERINA SOFFICI

In casa mia (con tre fratelli maschi) non è mai entrata neppure una pistola giocattolo. Mio padre, che aveva visto la guerra da giovane, era così contrario a qualsiasi esibizione delle armi che si arrabbiava pure se ci puntavamo un dito per scherzo. Potrebbe essere carico, diceva. Me ne ero dimenticata, di questa frase. Ed è riemersa in questi giorni dai pozzi profondi della memoria dove si annidano i ricordi.

È tornata a galla proprio ora e il motivo mi pare piuttosto palese. Non ho bisogno di uno psicologo che mi spieghi il meccanismo. Si parla di armi ovunque. Esibite e invocate. C’è quello, che non nomino per non fargli pubblicità, che imbraccia il fucile e mira proprio contro di te nel suo manifesto elettorale. È un europarlamentare di Fratelli d’Italia, che vende armi e munizioni di mestiere. Doppia pubblicità quindi (per sé e per la sua ditta), o come direbbe un cacciatore, due piccioni con una fava. C’è l’altro che vuole reintrodurre il servizio di leva. Idea non del tutto peregrina se fosse un servizio civile e arruolasse giovani braccia non certo per insegnar loro a sparare ma a maneggiare una pala e un sacco per ripulire i letti di fiumi e i boschi e le spiagge dalle tonnellate di plastica e immondizie varie. Non c’è giorno che accendendo la radio o la tv o aprendo un giornale non si parli di armi in Ucraina, armi in Israele, corsa agli armamenti, escalation.

Nel dibattito pubblico fino a poco tempo fa le armi erano un argomento tabù, o quasi. E non è una questione di cultura woke o di politicamente corretto, intendiamoci. Le armi, nel nostro immaginario collettivo, erano relegate a qualche residuo di film di guerra o western, alle serie tv camorriste, alla mafia, agli sceneggiati di narcos sudamericani, ai regimi autoritari. A ben vedere, tutte situazioni di criminalità e dintorni. Ora si parla di armi come fossero cioccolatini, e a forza di parlare di qualsiasi argomento, quell’argomento perde la sua eccezionalità e diventa familiare. È da un po’ che abbiamo sdoganato anche il tabù nucleare. Pare normale, per tanto che se ne è scritto, che un Pozzolo vada a una festa di Capodanno portandosi una pistola. Si è discettato a lungo su chi abbia sparato quella sera, questione penalmente rilevante, certo. A me però sconvolge di più che ci fosse un’arma in una sala dove si balla e si festeggia.

E quindi fa davvero sorridere questo dito che noi bambini non dovevamo puntare neanche per scherzo. Che stupidaggine, si potrebbe giustamente obiettare. Come può un dito essere carico? Obiezione respinta: non è il dito in sé ciò che importa, piuttosto è ciò che quel gesto significa. Puntare un’arma, anche ideale, contro qualcuno, è il primo passo verso lo sdoganamento di un concetto e di un certo tipo di cultura. Perché ogni sceneggiatore e scrittore sa – come ha insegnato Anton Cechov – che “se in un racconto compare una pistola, prima della fine bisogna che spari”. Non so a voi, ma a me questa cosa spaventa proprio.

in “La Stampa” del 4 aprile 2024