Musica. L’Opera salvata dai ragazzini. Educare alla bellezza

NICOLA PIOVANI, intervistato da ANNALISA CUZZOCREA

Nicola Piovani allunga il vino con l’acqua, prende in giro i cibi elaborati, scrive le sue opere a matita e non si fida dei giornalisti. Come l’allenatore della Roma Daniele De Rossi, che cita da buon tifoso, ha paura dell’inganno: che gli stravolgano i concetti, che gli cambino le parole. Uno dei più grandi compositori italiani si fida invece, totalmente, della musica. E del potere che la musica esercita su chi l’ascolta.

Il pranzo è fissato alla vigilia della partenza per Bari, dove Piovani porterà in scena un’opera scritta per ragazzini e ispirata alla storia di Teseo e il Minotauro. Non si tratta solo di accostare l’orecchio dei più piccoli a una musica alta in cui contano le note, le pause, gli strumenti, la voce, e non tutto il resto. Si tratta anche di affrontare i grandi temi del bene e del male, della pace e della guerra, della violenza e della salvezza, e di farlo pensando di avere come spettatori non degli adulti convinti di sapere tutto, ma dei ragazzini desiderosi di imparare qualcosa. «Perché a me questo capita, quando incontro i ragazzi. Di trovare un atteggiamento di apertura, di curiosità, che non trovo più in chi ha sempre la stessa reazione: eh ma a chi la racconti, eh ma vuoi che non lo sappia?».

E quindi, la ragione di quest’avventura è comunicare con i più giovani anche attraverso un’arte antica come l’Opera?

«La proposta è arrivata dal sovrintendente del Teatro Petruzzelli, Massimo Biscardi. Dopo un po’ di perplessità iniziale, ho accettato la sfida di confrontarmi per la prima volta con la categoria infanzia- adolescenza. L’opera è liberamente ispirata all’antico mito del Labirinto di Cnosso. Il Minotauro, essere metà uomo e metà toro, si nutre di bambini che gli vengono dati in sacrificio. Un giorno però un ragazzino, figlio di un re, decide di sfidarlo per salvare tutti gli altri».

Teseo e il filo di Arianna.

«Per rappresentarli abbiamo scelto la via del bianco e del nero, lo schema del grande conflitto fra il bene e il male, degli estremi. Saranno i ragazzi, crescendo, a scoprire da soli quante sfumature, ambiguità e incertezze si pongono tra questi due contrasti. Penso ai ragazzini che a maggio, al Petruzzelli, vedranno per la prima volta un golfo mistico, i fagotti, la grancassa, i violoncelli, il gran sipario rosso; e il tenore, la soprano, il coro; e gli effetti teatrali dal vivo, non su un video-device. Ci penso e mi emoziono. Il duello fra il mostruoso Minotauro e Teseo sarà guidato dall’astuzia che sfrutterà il narcisismo del mostruoso orco per imbrogliarlo. Non lo batterà con la forza, ma con l’espediente scaltro. L’opera si chiuderà con un immancabile e ostentato coro di lieto fine».

Ma lei cosa pensa di queste nuove generazioni descritte come apatiche, prese a manganellate quando manifestano, troppo digitali per noi analogici? Nutre un sentimento di fiducia o di disincanto?

«Come sempre, le generazioni mature fanno fatica a leggere il presente dei giovani: accadeva ai tempi dei miei anni verdi e noi, giovani di allora, sentivamo l’incapacità che avevano gli adulti di comprendere il nostro presente. Anche oggi è in agguato il nostro sguardo superficiale: la smania di giudicare ci impedisce di capire, la voglia di dare voti e pagelle ci rimbecillisce, ridurre il pensiero complesso sul binario del sì/no non ci fa comprendere cosa accade davvero alle nuove generazioni».

Non siamo capaci di vederli per quello che sono?

«Ci rifugiamo in categorie sommarie, nella demonizzazione dei social. E vorrei dire che conosco anche molti attempati che fanno un uso tossico sia dei social, sia dello smartphone».

Lei non pensa tolgano tempo e pensiero?

«Il digitale è un grande progresso tecnico rispetto all’analogico. Ma come sempre dipende dall’uso che se ne fa, su questo non c’è dubbio; al netto delle legittime nostalgie per il vinile, per il giornale di carta, per Carosello e per il Rosso Antico. Alcuni professori universitari che sono in contatto con molti studenti mi dicono che le nuovissime generazioni sono molto reattive e promettenti. E io ci spero. Ho parlato l’altro ieri con un giovane manifestante che non va a votare perché “il voto non serve a niente, non cambia la realtà”».

E cosa gli ha detto?

«Gli ho chiesto: secondo te invece le manifestazioni di piazza la cambiano? È rimasto perplesso, ma voglioso di ascoltare. Atteggiamento raro fra i miei coetanei».

Cos’ha pensato davanti alle violenze usate a Pisa contro i ragazzi che protestavano per la guerra in Medio Oriente?

«Le manganellate riguardano comportamenti imperdonabili di alcuni agenti delle forze dell’ordine, dettati dal dilettantismo nel migliore dei casi. Chi ha il compito di far rispettare le regole dovrebbe essere lui il primo a rispettarle. Manganellare dei minorenni inermi è illegale, oltre che scellerato».

Lei ha due figli. Li ha cresciuti facendo conoscere loro la musica?

«Sì ma in maniera non impegnativa, da bambini gli facevo ascoltare insieme a me della musica. Che è quello che dovrebbe fare la scuola».

E lei da bambino come l’ha incontrata?

«Mio padre suonava la tromba nella banda del paese. Non aveva studiato, aveva fatto la terza elementare, eravamo ai primi Anni 50, si veniva dalla guerra, ma lui mi raccontava che tutti – proprio tutti – in quel paese terminale dove arrivavi solo se era proprio quella la tua destinazione, andavano in piazza ad ascoltare il quartetto del Rigoletto, il Miserere del Trovatore, l’intermezzo della Cavalleria rusticana. Io cominciai a prendere lezione di fisarmonica perché a tre anni sentivo i miei fratelli nell’altra stanza e volevo suonare anch’io. Il maestro arrivava su un guzzetto, una piccola moto Guzzi, e mio padre lo pagava con la frutta, la verdura, i pomodori che portava dal paese».

Corchiano, in provincia di Viterbo.

«Eravamo poveri ma dignitosi. A Roma vivevamo al quartiere Trionfale. Capii dopo che mio padre mi aveva comprato quella piccola fisarmonica e mi pagava quelle lezioni facendo sacrifici. Torno spesso al paese, so parlare quel dialetto, e un giorno c’era un vecchio – vecchio vecchio – con una di quelle facce che non hanno mai usato il latte detergente, facce che sono mappe in tre dimensioni, che aveva suonato in quella banda. Ho preso il giradischi, ho messo su l’interludio della Cavalleria rusticana, lui l’ha cominciata a sentire e l’ho visto trasfigurarsi: con gli occhi lucidi, in una dimensione che estensivamente chiamo religiosa, dell’oltre. È la differenza tra uno che sta con l’iPhone a sentire Taylor Swift e quell’altra cosa».

L’altra musica la portiamo abbastanza nella vita dei bambini e dei ragazzi? Di chi vive lontano dai grandi centri urbani o culturali?

«Dovrebbe farlo la scuola, a cui non bisogna chiedere di educare musicisti, ma ascoltatori».

Educare alla bellezza?

«Io ho avuto una grande fortuna. Al liceo veniva un professore giovane che portava il giradischi e ci faceva ascoltare il Don Giovanni, Gino Paoli, poi divenne critico d’arte. Va bene il flauto dolce, ma per prima cosa bisogna saper ascoltare la bellezza».

E come si fa a portare più bellezza nelle loro vite?

«Il finanziamento pubblico dà, giustamente, venti milioni l’anno agli enti lirici. Perché una poltrona deve costare più di cento euro? Se nel bilancio il botteghino influisce meno del 5 per cento?».

Lei lo sa?

«Forse perché diventa un diaframma sociale. La mondanità, rispetto alla cultura, c’è stata dai tempi di Pericle. Si continui, si facciano prime scintillanti, ma poi si facciano seguire tante repliche a prezzi contenuti. E poi il repertorio classico andrebbe tenuto a lungo nel cartellone: perché si fa un’opera con sole sei repliche? Mettile a venti euro e poi sì che diventi servizio pubblico. Puccini è più conosciuto e amato nelle Fiandre, o in Cina, che in Italia. Vanno a sentirlo in jeans, in pantaloni corti, ma vanno a sentire la nostra musica».

E da noi?

«La presenza della musica nella vita dei giovani e degli studenti è gestita in gran parte dalle multinazionali: piattaforme gratuite, playlist suggerite dall’algoritmo, radio commerciali, concertoni costruiti col criterio del massimo profitto. Il ruolo formativo delle pubbliche istituzioni è esiguo: della scuola in primis, e poi della gestione culturale ministeriale, della distribuzione civile. Ogni Regione italiana dovrebbe avere la sua orchestra sinfonica, la sua stagione concertistica. L’accesso ai concerti e all’opera dovrebbe essere a basso costo per tutti e a bassissimo costo per gli studenti. Non è accettabile che il Don Pasquale di Donizetti sia meno conosciuto in Italia che nel resto d’Europa. Ma dico sempre le stesse cose da anni, mi scusi!».

Se le chiedo cosa pensa della musica trap interrompe la conversazione?

«La “musica trap”, la “musica rap”, la “musica rock”. Ma il trap, il rap, il rock sono fenomeni di costume e di spettacolo che solo marginalmente hanno a che fare con la musica. In questi ambiti quel che conta è innanzitutto il personaggio, il look, la coreografia, la biografia. Taylor Swift o Geolier hanno un successo dovuto solo in minima parte alla qualità della loro musica. Se senti le stesse canzoni cantate da uno col doppiopetto gessato, seduto, si afflosciano come la panna riscaldata».

Immagine suggestiva.

«Nel rap-trap la musica è un accessorio marginale ancor più che nel rock. Naturalmente alcuni rock performer sono stati anche grandi musicisti: dai Beatles ai Queen ai Radiohaed, ma il loro successo è stato determinato da tanti fattori generazionali, di comunicazione, fra cui la musica. I trapper poi, da quel poco che ne so, amano essere antimusicali, sgradevoli, la rozzezza del loro linguaggio è vissuta come fenomeno eversivo – anche quando i testi sono fortemente reazionari».

E perché invece ha senso avvicinare i bambini all’Opera?

«Per far scoprire loro che un teatro come il Petruzzelli – con orchestra, coro, soprano, tenore, baritono… – può essere luogo di divertimento alto, di ascolto gioioso, di piacere artistico giocoso; non un tempio della cultura noiosa. Alcuni dei ragazzi che assisteranno a maggio al Labirinto di Creta metteranno piede per la prima volta in un teatro lirico. Mi auguro che ne escano col desiderio di tornarci presto. Quando ai tempi del mio ginnasio ci portavano a teatro, sceglievano spettacoli coltissimi e noiosissimi. Ne uscivamo con il desiderio di non mettere più piede in un teatro per il resto della vita».

Il bianco e il nero, il bene e il male: a lungo negli ultimi anni abbiamo operato una sorta di censura, rispetto al male. Qualcuno edulcorava le favole, considerandole troppo crude per sensibilità accese come quelle dei più piccoli. Adesso ci ritroviamo a dover spiegare loro una realtà che è ben più cruda di Hansel e Gretel, e forse anche più della lotta con il Minotauro. La sorprende, questo ritorno a un mondo di guerre?

«Effettivamente, fra il Minotauro e Putin avrei difficoltà a scegliere. Viviamo la sensazione quotidiana di stare sull’orlo di una guerra nucleare. Le guerre crudeli in atto aumentano di giorno in giorno, ma per ora le guardiamo in televisione. La mia generazione era cresciuta con l’idea dell’incolumità esistenziale – nel nostro campo geografico e sociale – ma già con l’inatteso Covid la nostra sensazione di invulnerabilità si è sfarinata. Le favole però da sempre raccontano la lotta fra il cattivo e il buono, e il buono alla fine vince. L’idea di fondo che possono trasmettere è che il male

non è invincibile. E questo sentimento favolistico il mio animo lo vive in pieno, anche alla mia età: pensare positivo, in mezzo a una realtà tragica, fa bene a noi e al mondo. Aiuta a cercare di migliorare la realtà, anziché limitarsi alla lagna “antisistema”».

Ci sono bambini, penso a chi è nato in Siria, in Libia, Afghanistan, in alcune zone dell’Africa, per cui il mondo è sempre stato guerra. Poi ci sono quelli d’occidente, nati in un pezzo di mondo che da quasi un secolo riteneva di aver scelto la pace: abbiamo cambiato idea, stiamo prendendo un’altra strada?

«Il mondo è governato sempre più da un’idea pubblicitaria del progresso. Il linguaggio della pubblicità ormai si infiltra dovunque, molti film tendono a somigliare stilisticamente agli spot pubblicitari, è quasi impossibile trovare luoghi di silenzio, è incentivato il pensiero corto, irriflessivo, emotivo. Anche in una trasmissione dove si parla di tragedie planetarie bisogna fare inquadrature brevi, distraenti, riempirli di musiche ballabili. Anche un intervento filosofico si misura col termometro degli acchiappalike. Ci sono politici bravi a governare, altri bravi a raccogliere consenso. Raramente le due bravure convivono, raramente lo statista e il piazzista abitano nella stessa persona. Non so oggi quanto consenso raccoglierebbe la valenza mediatica di Alcide De Gasperi».

Dividere il mondo in buoni e cattivi, stabilire una nuova immaginaria cortina di ferro, è necessario a difendere i nostri valori o è un processo attraverso cui li stiamo negando?

«Difendere e amare la diversità è un modo per difendere e amare i propri valori. La propria identità non si rafforza negando il diverso, al contrario. La nostra identità, che qualcuno crede pura e incontaminata, è frutto di incroci antichi fra culture, etnie, religioni diverse. Amare le altrui identità è il modo migliore per annaffiare pianta della nostra».

A un certo punto però anche all’arte è stato chiesto di schierarsi.

«Tutti i processi di emancipazioni storicamente passano fatalmente per eccessi ridicoli, per sbandamenti paradossali. È imbarazzante la cultura della cancellazione, quella che vuole raddrizzare le gambe a Shakespeare, quella che vuole correggere le opere che contengono il femminicidio: è una prassi nel migliore dei casi equivoca. A volte proprio idiota. Le grandi opere del passato raccontano il loro presente, e sono strumenti di conoscenza artistica preziosa, rappresentano e cantano il mondo come era, non come avrebbe dovuto essere secondo le nostre coscienze moderne. Pergolesi ha scritto La serva padrona. Chiamarla “La colf padrona” non è progresso, è scemenza».

E come definirebbe l’aria di censura che si respira in Rai? Con l’eliminazione di un monologo di Scurati sul 25 aprile da un programma televisivo di Rai3?

«Una legge elettorale scellerata ha consegnato le chiavi del Paese a un gruppo politico che intende usarle senza sconti. Era prevedibile. E sì che lo schieramento vincente aritmeticamente ha raccolto meno voti dello schieramento avversario. Gli elettori progressisti amano sparpagliarsi, gli elettori di destra amano coalizzarsi».

C’è un di più, rispetto a quel che in Rai è sempre accaduto?

«A ventun’anni dovevo mantenermi. Tra i tanti lavori che ho fatto, sono stato impiegato a RadioRai in via Asiago. Ci davano i dischi da mettere. E c’erano i dischi censurati».

Che anni erano?

«Nel ’69 e all’inizio degli Anni 70. C’erano i 33 giri, i long playing, e se per caso dentro c’era una canzone censurata l’azienda ci dava dei coltellini da architetto per segnare la traccia in modo che la puntina la saltasse. Erano censurate le canzoni di Mina, di Modugno. Resta cu’ mme era una canzone censurata perché diceva “che m’ ‘mporta d’o passato ‘che m’ ‘mporta ‘e chi t’ha avuto”. E Modugno ne fece una versione edulcorata».

Quindi, c’è sempre stata.

«Nell’Ottocento in Italia impedirono di rappresentare il Rigoletto con la gobba. A Roma vietarono l’aria “Vendetta tremenda vendetta” perché poteva alludere all’insurrezione popolare. E il censore era Giuseppe Gioacchino Belli, che a sua volta doveva far fare lunghi giri alle sue opere per evitare la censura».

Dovremmo aver fatto dei passi avanti.

«Sì, e molti progressi si sono fatti. Ma il fatto che in una televisione pubblica non si possano dire liberi pensieri, che si debba usare il bilancino, è asfissiante. Questi ultimi episodi sono particolarmente scoperti, volgari, ma il peccato originale è quello: una legge elettorale che ha portato a un Parlamento in cui chi ha vinto può fare ciò che vuole. Non ci resta che cambiare il prossimo Parlamento».

L’ha colpita l’accusa a Scurati basata sul suo compenso?

«Da sempre la destra attacca sui soldi. Fazio, Benigni, Saviano, sono stati additati al pubblico ludibrio per i cachet: è un argomento demagogico per colpire le idee. È un raccontino che usano perché sanno che funziona. Semplicemente, non bisogna ascoltare».

P.S.: l’intervista è finita, ma Piovani vuole precisare una circostanza fondamentale: «Io non metto mai l’acqua nel vino. Metto il vino nell’acqua. Non annacquo il vino (sarebbe imperdonabile), avvinazzo l’acqua, e non è la stessa cosa. Del resto era costume anche degli antichi greci e latini. Quello chiamato Enos era all’incirca due parti d’acqua e una di vino»

in “La Stampa” del 24 aprile 2024

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