L’Isis, Hamas, Mosca e la UE . “Si vis pacem para pacem”

ANDREA MALAGUTI

«È facile disilludersi della politica come strumento di cambiamento positivo e portatore di speranza. Ma la verità è che io, quella speranza, non l’ho ancora persa e mai lo farò. Ciò in cui credo fortemente, invece, è che la leadership politica sia cruciale, soprattutto nell’era della Crisi» – Jacinda Ardern (Inaugurazione anno accademico Università di Bologna)

L’Era della Crisi. Ci siamo dentro mani e piedi. È complicato in queste ore sfuggire alla sensazione che stia andando tutto in pezzi. Siamo di fronte al disfacimento. E lo affrontiamo fischiettando. O, peggio, scommettendo su un bellicismo primitivo, una reattività medievale e nichilista che sembra rinnegare alla radice il senso stesso di un’Europa fondata sull’umanesimo e sulla difesa della pace.

L’attentato terroristico di Mosca, con le sue molte decine di morti, i bambini trucidati, un commando di killer professionisti abituati a odiare, che rade al suolo qualunque forma di vita gli si presenti davanti come in un videogioco per psicopatici, richiama alla mente non solo gli orrori di Beslan e di Dubrovka, il settembre nero del 1999 russo ricordato su queste colonne da Anna Zafesova, ma anche la violenza spietata di Mumbai e del Bataclan.

E, ancor di più, il macello disumano di Hamas. Come se l’orrore del 7 ottobre, il suo clamore planetario, avesse rimesso in funzione la macina infernale dello jihadismo internazionale. Lo Stato Islamico invoca l’ennesima crociata contro i cristiani, come Hamas contro gli ebrei. La religione trasformata in arma, in patetica giustificazione dell’inaccettabile. Ultimo ed eterno tassello di un risiko apocalittico in cui la sola ossessione sembra essere la morte.

A pochi giorni dalla quinta farsesca rielezione di Vladimir Putin, il sangue pretende altro sangue. L’idea distruttrice che accompagna i tagliagole dell’Isis dalla Turchia alla Palestina, dal Libano alla Siria, dall’Iran all’Afghanistan sciita dell’Isis Khorasan, si salda, accelerandola, con l’escalation militare che travolge la Russia e l’Ucraina, ispirando la novecentesca chiamata alle armi di Bruxelles. Stiamo consegnando al caos l’intero pianeta. Come se fosse inevitabile.

Come si comporterà lo Zar di tutte le Russie di fronte al massacro? Contro chi lo utilizzerà? Per fare che cosa? Si nasconderà dietro la vendicativa reazione di Netanyahu per giustificare la propria? Userà l’atomica? L’ex spia del Kgb, Vladimir Putin, “Mad Vlad”, ha impiegato un giorno intero per far sentire la propria voce. Quindi ha alluso all’ipotetico coinvolgimento di Kiev, spalancando la porta a ogni ipotesi di devastante follia. E noi ne discutiamo come se fosse una serie di Netflix, un giochino da telespettatori.

L’immagine in bianco e nero scattata da Soazig de la Moissonière, fotografa ufficiale dell’Eliseo, che immortala un miketysoniano Emmanuel Macron alle prese con un sacco per la boxe, descrive bene lo spirito dei tempi.

A corto di consensi interni, il presidente della Repubblica francese, dopo avere invocato la presenza di soldati europei in Ucraina, incardina la campagna elettorale europea a una stupida idea muscolare delle relazioni internazionali. Il sottotesto è semplice: i boss mafiosi capiscono solo il linguaggio dei boss mafiosi. E Putin è il capo di tutti i boss. Dunque, se lui uccide noi uccidiamo. Non c’è alternativa alla guerra. Neppure se rischiamo la fine dell’umanità.

Solo che invece di dirgli: fermati, sei pazzo, armiamoci ma trattiamo fino a svenire, ciò che resta dell’Europa si siede plaudente sulla coda di questa suicida Grandeur di ritorno per vedere l’effetto che fa. Così finisce male.

Il presidente del Consiglio, Charles Michel, manda in giro una lettera il cui titolo esplicito è: si vis pacem para bellum. Dopo duemila anni siamo sempre lì. Ma a nome di chi parla, di grazia? Con chi si è confrontato? A chi ha chiesto il permesso?

Il Vecchio Continente è un arcipelago di leader zoppi, divisi, confusi, concentrati a rimirarsi l’ombelico in attesa del 9 giugno. Così, mentre Viktor Orban si congratula col Cremlino per l’esito del voto, un’ondivaga Giorgia Meloni, sua storica alleata, prende faticosamente le distanze, mostrandosi però incapace di arginare le untuose esternazioni di Matteo Salvini, la cui evidente passione per il Cremlino lascia immaginare (di certo ingiustamente) legami inconfessati e inconfessabili. «Putin? Il popolo ha sempre ragione», ghigna il Capitano fuori controllo, confermando – se ancora ce ne fosse bisogno – di essere a digiuno della grammatica di base del liberalismo giuridico. Dettagli per chi, ancora una volta, convoca a casa nostra i capibastone delle peggiori e maleodoranti destre estremiste, consentendo a Marine Le Pen di mettere Meloni con le spalle al muro («Devi dirci se stai con Von der Leyen o no!»), come se fosse una pericolosa traditrice e non la presidente del consiglio dei ministri di cui Salvini è il vice.

Ma questi sono i nostri leader. E beato chi capisce a quali valori si aggrappa il tanto sbandierato patriottismo italico. Ai baci sulla guancia che segnalano la ritrovata armonia tra Macron e una Meloni poliedricamente bideniana-ma/anche/trumpiana-vonderleyiana-mezzaorbaniana-del/tutto/ abascaliana/voxiana? Al neonazismo dell’Afd? O al trumpismo che declama «gli stranieri sono animali e Hitler ha fatto anche cose buone»? Ci crediamo alla diplomazia o preferiamo le bombe? Qual è il principio guida? Qualcuno può dircelo? Qual è il nostro contributo per evitare l’Armageddon?

La sensazione, disperante, è di essere appesi non alle idee, ai progetti, tanto meno alle visioni, ma semplicemente agli umori, ai sondaggi, alle nevrosi di una classe politica inadatta a gestire la gravità del momento. Un gruppo dirigente che nei dibattiti parlamentari si esibisce in un imbarazzante macchiettismo alle vongole, sostituendo risposte, analisi e preoccupazioni, con faccette, gag e teste nascoste sotto la giacca di eleganti tailleur.

Persino la Cina lavora per la pace più di noi. Se è vero che Li Hui, rappresentante speciale di Pechino per gli Affari euroasiatici, dopo essere stato a Kiev e a Mosca dichiara: «Tutte le parti insistono sulle proprie posizioni e c’è un divario relativamente grande nella loro comprensione dei colloqui di pace, ma tutti concordano sul fatto che i negoziati, piuttosto che le armi, metteranno fine a questa guerra. Lo scopo della nostra spola diplomatica è chiaro: impegnarci in una comunicazione approfondita con la Russia e l’Ucraina, i due Paesi coinvolti nella guerra, e con le nazioni europee interessate. E, sulla base degli ultimi sviluppi della situazione, cercare congiuntamente modi per una rapida risoluzione politica della crisi».

Xi Jinping è più illuminato di noi? Vede cose che noi non vediamo? Magari fosse. Davvero l’Europa è capace solo del micragnoso sforzo diplomatico sotto i nostri occhi? Abbiamo poco tempo. Le elezioni americane rischiano di lasciarci orfani del fratello maggiore nella Nato e nudi di fronte alle mire espansionistiche putiniane. Ha ragione Jacinda Ardern, per cinque anni a capo del governo neozelandese, mai come ora serve una convincente leadership politica. All’orizzonte non si nota.

Ultime considerazioni. Ero a Bologna, ieri. Per un convegno su Chiara Lubich a ottant’anni dalla fondazione dei Focolari. “Che tutti siano uno”, Giovanni, 17, 21. Frase magnifica. Non sono particolarmente religioso, ma non è questo il punto. C’era il cardinale Matteo Zuppi, il presidente della Cei, una delle poche autorità morali del Paese. Parte delle idee espresse in questo articolo nascono dal confronto con lui, che, salutandomi, mi ha detto: «Solo un dissennato non sarebbe preoccupato in un momento così. Dobbiamo chiedere all’Europa uno sforzo. Si vis pacem para pacem». La pace si fa con la pace. La si cerca ad ogni costo. «E questo non significa essere molli, al contrario. Bisogna essere e dimostrarsi forti. Ma senza allontanarsi dalla ricerca di una soluzione disarmata». Diversamente, come ci ha detto una ragazza che ascoltava le nostre chiacchiere agitate, «continueremo a trasformare il mondo in un gigantesco ospedale». E, avanti così, in un camposanto.

in “La Stampa” del 24 marzo 2024

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