“Dialoghi sulla fede”. Il regista cinematografico Martin Scorsese si racconta

ANTONIO SPADARO

È in libreria da ieri, 22 marzo, il volume scritto da Martin Scorsese e Antonio Spadaro «Dialoghi sulla fede» (Milano, La nave di Teseo, 2024, pagine 160, euro 16). Il testo, dal quale riprendiamo l’introduzione del sottosegretario del Dicastero per la Cultura e l’educazione,  è frutto di incontri e colloqui tra i due autori e  offre una rilettura della carriera del regista premio Oscar alla luce di alcune riflessioni sulla fede e la grazia di cui, in modo più o meno velato, si ritrova  traccia nelle sue opere cinematografiche. 

New York. Il 3 marzo 2016 suono il campanello a casa Scorsese: è una giornata fredda, ma luminosa. Sono le 13.00. Vengo accolto in cucina, come in famiglia. La persona che mi fa entrare mi chiede se voglio un buon caffè. «Italiano», precisa. Accetto. Infreddolito. Sono arrivato un po’ in anticipo e ho preferito attendere facendo il giro dell’isolato. L’idea di un caffè caldo — e italiano — mi attira. Ad accogliermi in soggiorno è la moglie di Martin, Helen. Ho una forte sensazione di casa. Parliamo a lungo prima dell’arrivo del marito. Siamo seduti sullo stesso divano.

Arriva Martin con passo svelto e con il sorriso accogliente. Parliamo subito delle nostre radici comuni. Siamo in qualche modo “paesani”. Sa già che io sono di Messina. Lui mi dice che è di Polizzi Generosa, a metà strada tra Messina e Palermo. O meglio: lo era suo nonno. Ma per lui è chiaro che le sue radici sono là. Polizzi Generosa ha dato i natali a Giuseppe Antonio Borgese, uomo di pensiero, letterato e politico; al cardinale Mariano Rampolla del Tindaro, segretario di Stato di Leone XIII , e quasi eletto pontefice.

Ma non parliamo di loro. Ricordiamo invece la sua vita da nipote di immigrati nei quartieri di New York, la sua vita da chierichetto. Ne esce un miscuglio di legami di sangue, violenza e sacro. Per Martin i riti in chiesa erano drammatici, le liturgie bellissime. I ricordi in chiesa si fondono con quelli di ragazzino che, inconsapevolmente, fa della strada il suo primo set cinematografico: quello della sua immaginazione, dei suoi sogni e dei suoi incubi, dove tra i personaggi c’erano gangsters e preti.

«Quando ero ragazzo, ero davvero fortunato, perché avevo un prete straordinario, padre Principe. Da lui ho imparato tantissimo, e tra le altre cose la pietà con se stessi e con gli altri» mi dice. Forse parlando con me, Scorsese ha in mente padre Principe, siciliano come lo sono io. E così capisco che per lui la religione non è degli angeli, ma degli uomini.

«La grazia nel territorio del diavolo»: questa espressione di Flannery O’Connor può riassumere l’opera di Scorsese, credo. Mi diceva che nel suo libro Absence of Mind, Marilynne Robinson ha scritto qualcosa che lo ha molto colpito: «Siamo brillantemente creativi e altrettanto brillantemente distruttivi». Questo rende l’uomo inspiegabile, cioè irriducibile a spiegazioni: è «il mistero grande, stupefacente, del nostro mero esserci, del vivere e morire». Per Martin mi pare che ci sia una differenza radicale tra un problema e un mistero: nel mistero la risposta non esaurisce la domanda. E i misteri non si devono trasformare in problemi. Quando era chierichetto, uscendo per strada dopo la fine della messa si chiedeva: «Com’è possibile che la vita vada avanti come se niente fosse accaduto? Perché non è cambiato niente? Perché il mondo non viene scosso dal corpo e dal sangue di Cristo?».

Perché il mistero della morte e resurrezione non cambia il mondo? E una domanda lancinante, mistica. Come ha fatto Scorsese a portarsela dietro per i decenni della sua vita? Indubbiamente grazie al cinema, da Toro scatenato a Silence, passando per L’ultima tentazione. Per quest’ultimo film è stato a Gerusalemme: «Mi hanno portato nella chiesa del Santo Sepolcro», racconta: mi dice di essere stato sulla tomba di Cristo, che si è inginocchiato, che ha detto una preghiera, ma senza sentirsi diverso. Era rimasto però molto impressionato dalla geografia del luogo. Poi però risale in aereo monomotore e… «improvvisamente», mi dice, «ho avvertito una sensazione totale di amore…». Ecco la risposta alla domanda di allora: «Qualcosa è cambiato». Esco da casa Scorsese che sono le tre e mezzo, e fuori fa meno freddo di quando sono entrato. Costeggio a piedi Central Park per tornare a casa.

Rivedo Mr. Scorsese il 25 novembre successivo a Roma. Sono le cinque del pomeriggio. Arrivo al suo albergo in anticipo e mi godo il tramonto in un cielo che sembra dipinto da un impressionista. Varco la porta dell’hotel giusto alcuni istanti prima di Helen che rientra. Quando la vedo, ho come l’impressione di non averla mai lasciata. Ci sediamo a prendere un tè. Lo prendo io, in realtà: lei prende un bicchiere d’acqua. Parliamo, e quasi mi dimentico che ero lì per il marito. «Sta arrivando», mi dice. E io: «Chi?».

Mi alzo e vado incontro a Mr. Scorsese, che arriva sempre con il suo abito scuro, ma senza occhiali, che tiene in mano. La sua stretta è calda come il suo sorriso. Ci sediamo e con lui arrivano pane, grissini, olio, sale, biscotti e il suo caffè americano con latte. Mangiamo tutti qualcosa. E riprendiamo la conversazione seduti su un tavolo all’angolo dell’elegante ma sobria e accogliente sala messa a nostra disposizione.

Torniamo al discorso sulla grazia iniziato a New York. Mi dice che nel frattempo si è sottoposto a un’operazione agli occhi a Indianapolis, e che ha dovuto trascorrere molto tempo senza poter leggere. Allora si è procurato audiolibri e ha ascoltato Dostoevskij a più non posso. Mi parla dei Karamazov. E di come abbia goduto e lottato con la sua fantasia ascoltando. Io gli dico che papa Francesco ama anche lui Dostoevskij. «Interessante» mi dice «e che cosa gli piace, in particolare?» mi chiede. Gli dico che il romanzo a lui più caro è Memorie del sottosuolo. Lui ha un sobbalzo. «Ma è anche il mio!» esclama. «Taxi driver è il mio Memorie del sottosuolo!».

Riprendiamo i nostri dialoghi sulla grazia nel giugno successivo, e lì gli chiedo se avesse voglia di fare una riflessione sulla sua vita, e in particolare i suoi errori, parlando ai giovani che si affacciano alla vita. Accetta e dà il suo contributo a un libro dal titolo La saggezza del tempo. Il senso del volume era quello di presentare storie che persone avanti in età raccontavano ai più giovani per tendere un filo tra le generazioni. Tra i protagonisti c’era anche papa Francesco. Martin si mette a nudo e scrive tra l’altro: «Penso di aver imparato più dai fallimenti, dal rifiuto, dall’ostilità che dal successo». Viene poi a Roma per la presentazione del volume con il pontefice il 23 ottobre 2018. In quell’occasione pone pubblicamente una domanda a Francesco: «Santo Padre, oggi le persone fanno tanta fatica a cambiare, a credere nel futuro. Non si crede più nel bene. Ci guardiamo attorno, leggiamo i giornali e sembra che ormai la vita del mondo sia segnata dal male, persino dal terrore e dall’umiliazione. In che modo oggi un essere umano può vivere una vita buona e giusta in una società dove ciò che spinge ad agire sono avidità e vanità, dove il potere si esprime con violenza. Come faccio a vivere bene quando faccio esperienza del male?». Una domanda forte alla quale il papa risponde guardandolo negli occhi. Ricordo poi l’abbraccio con lui e la moglie Helen: in quel momento è scattato qualcosa, forse la percezione di un compito. Ho rivisto quel medesimo sguardo d’intesa profonda il 21 ottobre 2019 quando Francesco e Martin si rivedono per un breve incontro durante una pausa del Sinodo sull’Amazzonia.

Successivamente gli chiedo di prendere parte con un suo intervento alla serie Netflix Stories of a Generation with Pope Francis, ispirata da quel volume. Lui accetta e si fa intervistare da sua figlia, parlando di sé senza filtri: «Noi che giriamo film, non lo facciamo per noi stessi, ma per rendere giustizia alla vita che ci circonda e per rispondere alla domanda su cosa sia l’essere umano», afferma.

Lo vedo ancora una volta a cena a casa sua a metà febbraio del 2019. Quella sera parliamo a lungo di Bruce Springsteen, quello di Badlands e di The Rising. Quando esco a sera tardi mi torna in mente la sua struggente New York City Serenade: «It’s midnight in Manhattan, this is no time to get cute…», e mi commuovo.

Avevamo parlato dell’importanza del dramma, dei romanzi drammatici, di quelli che rispecchiano la vita e non le idee, dei ricordi. Mi aveva detto che per strada ha imparato a guardare. E girando i film, continuava a imparare a guardare. «Anche questa è una grazia», mi aveva detto: «per me, tutto si riduce alla questione della grazia. La grazia è qualcosa che avviene nel corso della vita. Viene quando non te l’aspetti».

Nel mondo si diffonde un virus spesso letale. Siamo in piena pandemia. E mi ricordo che Martin ha l’asma sin da ragazzino. Mi viene in mente l’operazione ai polmoni che papa Francesco ha subito da giovane. Mi sono chiesto come incida sulla visione della vita il fatto di avere il respiro corto. Decido quindi, nella tarda primavera del 2020, di chiedere a Scorsese come viva il tempo di forzata clausura dovuta al coronavirus. Quali gli echi e le risonanze? Ci siamo scambiati via mail domande e risposte, in un dialogo non lungo, ma che è stato limato dal regista per ben sette volte, col desiderio di essere preciso su un’esperienza che lo ha toccato profondamente.

«Mi sono ritrovato solo, nella mia stanza, a vi vere da un respiro all’altro…» mi scrive della sua clausura forzata. Un ricordo che lo ha certamente riportato alla giovinezza, quando guardava spesso il mondo dalla sua finestra: «il ricordo di avere guardato in strada e di avere visto tante cose, alcune belle e altre orribili, e alcune indescrivibili, per me è centrale», mi dice. Il suo cineocchio è la finestra di casa, luogo di elaborazione delle azioni e delle vicende umane, quelle che vede per strada. Trionfa la grazia in ciò che mi dice. E i suoi occhi la rivelano con guizzi. «Sono circondato da una forma di grazia», mi dice con un sorriso. E guarda la moglie. Ma la grazia di cui mi parla sarebbe del tutto incomprensibile senza la polvere e le ombre. In piena pandemia quando sentiva che «l’aria che ci circonda, l’aria che ci sostenta avrebbe potuto ucciderci», mi dice: «Essere. Respirare. Qui. Adesso. Tutto questo non è grazia?».

Ottobre 2022: per la prima volta dopo la pandemia, ci siamo ritrovati a casa sua per cena. Prima di sederci mi ha regalato un piccolo libro della sua biblioteca dal titolo The Practice of thè Presence of God di fratel Lorenzo della Resurrezione, un frate carmelitano della metà del XVII secolo con la prefazione di Dorothy Day. Noto alcune sottolineature. In particolare un passaggio nel quale si dice che per essere con Dio basta «fare del nostro cuore un oratorio nel quale ritirarci di quando in quando per intrattenerci dolcemente, umilmente e amorevolmente con Lui».

Mi ha fatto vedere alcune immagini e sequenze di Killers of the Flower Moon. Le trovo di una bellezza mozzafiato. Riconosco citazioni di Georges de La Tour, tra l’altro. Ma poi abbiamo parlato di romanzi, di che cosa accade in una storia, e della prospettiva cristiana sulle storie. Concordavamo su una cosa fondamentale: è possibile che la grazia tocchi un’esperienza umana. E questo significa ammettere che sia possibile un cambiamento radicale come reazione al tocco — che sia carezza o schiaffo — di quella grazia. Eravamo d’accordo, insomma, sul fatto che sia possibile cambiare davvero: cambiare vita, non solo idee. Sono colpito da Helen: la sua presenza, nonostante la malattia, è sempre vigile. Partecipa alla nostra conversazione con sguardi intensi e poche parole, ma sempre affilatissime, precise, quelle giuste.

Martin mi chiede di incontrare Kent Jones, regista e critico cinematografico che lavora con lui sin dagli anni novanta. Stavo per ripartire per Roma e lui era fuori città, ma riusciamo combinare un in contro: un’oretta in un piccolo caffè sotto il Rockefeller Center. È stata una conversazione profonda: scopro una personalità pacata e intensa. Ha il carattere opposto a quello di Martin, ma comprendo la profonda sintonia che c’è tra i due.

Tornato a Roma, ho meditato su quella conversazione e gli ho inviato una mail. Gli ho scritto allora di un libro su Gesù che stavo terminando: Una trama divina. Gesù in controcampo. Non era una biografia, ma un commento composto di quadri a loro modo “cinematografici”. Papa Francesco ha voluto scrivere una sua prefazione al volume, ragionando sulla figura di Gesù. Ho sentito che dovevo condividerla con lui. Il testo del pontefice si conclude con un appello agli artisti a farci vedere Gesù con «la genialità di un linguaggio nuovo, di storie e immagini potenti».

Scorsese ha avvertito la forza di un invito personale. Mi ha scritto dopo una decina di giorni che avvertiva la necessità di rispondere. Non con un saggio, ma da regista — mi ha scritto — con una sceneggiatura, «qualcosa che catturi l’occhio e la mente in modo inaspettato». Quando l’ho ricevuta sono rimasto sconvolto da questo gesto. Ero in vacanza da un amico gesuita in Francia ed era ora di pranzo: ho cominciato a girare in tondo per la stanza per sfogare la tensione mentre leggevo il testo. Dopo aver riletto più volte questo script, ho sentito che lì dentro — «forse la base per un film», aveva aggiunto — c’era moltissimo della sua opera e di se stesso. Ovviamente non ha nulla a che vedere con King of Kings, ma non si esaurisce neanche in un Amleto né in un James Dean. Martin, infine, mi ha scritto: «Sto solo cercando di accogliere la chiamata del papa agli artisti con una possibile risposta, che potrebbe portare a ulteriori risposte».

Lo rivedo a metà aprile 2023 per una lunga conversazione. Nella cena di sei mesi prima gli avevo parlato del fatto che stavo organizzando presso La Civiltà Cattolica, in collaborazione con la Georgetown University, un incontro di quaranta poeti da tutte le parti del mondo sul tema dell’immaginazione e il cattolicesimo. Si sarebbe tenuto nel maggio successivo. Gli avevo chiesto se avesse desiderio di partecipare e lui mi era sembrato possibilista. Adesso fissiamo tutto. Lui ci avrebbe raggiunto subito dopo Cannes, dove avrebbe presentato il suo Killers of the Flower Moon.

Martin arriva a Roma e alloggia in un albergo che sta davanti alle mie finestre. Ci vediamo il 26 maggio sera per due chiacchiere e la mattina del giorno dopo siamo insieme all’udienza che papa Francesco ha concesso ai partecipanti all’incontro dei poeti: un momento splendido, nel quale Martin ha portato a Francesco doni dalla popolazione Osage. Nel pomeriggio ha partecipato al nostro incontro: un dialogo tra lui e me molto affilato e intenso. Gli appunti di quel dialogo sono stati poi sviluppati per iscritto.

La sera ci siamo ritrovati per cena. Il nostro di scorso è caduto su Marilynne Robinson, una delle più grandi scrittrici viventi. Lei, da fervente calvini sta, crede nella «predestinazione». Io lì sono andato giù duro, troppo duro, inutilmente, lo ammetto. E ho detto: «il suo genio poetico la salva, cioè salva le storie che scrive dalla sua fede nella predestinazione. Chi crede nel fatto che tu sia predestinato alla salvezza o alla dannazione non può scrivere storie interessanti perché manca un pezzo fondamentale perché una storia funzioni: la libertà».

Ho promesso a Scorsese che proverò a capire meglio il pensiero di Robinson: non ad amare le sue pagine, perché questo lo faccio già. Mi sono impegnato a farlo. Però di questo sono assolutamente sicuro: una storia interessante non può essere «già» scritta. Un personaggio vive solo mentre il suo autore ne scrive. Dietro l’angolo ci può essere un agguato qualunque. Deve poter essere un santo che all’improvviso precipita all’inferno. E deve poter essere un dannato che improvvisamente e imprevedibilmente salva se stesso (e magari qualche altro). E questo per ché accade qualcosa che mette in moto la sua libertà, senza incatenarlo a un destino già scritto da qual che parte: che sia la mente del Padreterno o di uno scrittore, non importa. Torno a casa a piedi con Kent e Marianne Bower e con loro continuo il discorso. Avrei voluto che quella serata non finisse mai.

La conversazione con Martin prosegue, il filo non si interrompe. Rivedo Martin per festeggiare il suo ottantunesimo compleanno a New York, il 18 novembre 2023. Il giorno giusto è il 17, ma lui era di rientro da Los Angeles. Prima di cena riprendiamo alcune delle nostre conversazioni aperte. Si aggiungono Mary Karr e Fran Lebowitz. Qualche giorno prima avevo rivisto Killers of thè Flower Moon. Ero pieno di domande. Gliene pongo alcune, ma mi appunto le al tre. Sono la base per un’ulteriore conversazione.

Rivedo Martin a Roma il 31 gennaio 2024 in occasione di una cena in onore suo e di Lily Gladstone per celebrare il film Killers of the Flower Moon. In camera sua ci soffermiamo a discutere del film su Gesù. Mi dice che una amica gli aveva chiesto quale fosse la «sua» immagine del Cristo, quella che gli era rimasta stampata nella mente. Lui mi fa vedere quella immagine fotografata nel suo iPad. Era un Cristo deposto dalla Croce che lo accompagna sin da quando era ragazzo. Restiamo in silenzio. Poi parliamo di questo libro di conversazioni sulla fede. Ho avuto l’impressione che questo con Martin sia un unico, lungo dialogo a tappe. C’è un filo profondo che unisce le nostre parole. E un filo che mi accompagna nel labirinto.

* * *

Il testo dei nostri dialoghi sulla fede si conclude con il testo della sceneggiatura di «un possibile film su Gesù». Essa è parte integrante di queste conversazioni nel senso che l’idea della sua stesura è nata al loro interno. La decisione di girare il film è stata confermata da Scorsese, e la stesura al quale il regista ora sta lavorando è differente. Questa prima bozza è un’opera a sé stante, dunque, che rappresenta la decisione e la necessità da parte del regista di «farci vedere Gesù». Un criterio fondamentale della sua stesura è certamente l’immediatezza della figura del Cristo.

Ed è molto rilevante vedere come Scorsese inserisca riferimenti ai suoi film precedenti, come a farne una nuova interpretazione.

Chi gli è stato compagno ideale nella sua stesura è certamente lo scrittore giapponese Shūsaku Endō (1923-1996), che si convertì al cristianesimo da ragazzo. Da Endō Scorsese assume la necessità di rappresentare Gesù come un essere davvero umano, una persona, «qualcuno che si può conoscere e con cui si può parlare». Ecco, in particolare, la domanda dello scrittore giapponese che plasma l’immaginazione del regista: «Come può Gesù far incontrare il Dio dell’a more con la realtà concreta della vita?». E questo il punto chiave. La prima risposta che Endō scarta — e così Scorsese — è quella miracolistica. Ed è chiarissi mo il fatto che «Gesù non fece mai il suo trionfo oggetto della missione». Così per Scorsese mai Gesù sarebbe stato da rappresentare come il King of Kings. La divinità di Gesù, infatti, erompe dalla sua umanità.

in L’Osservatore Romano, 23 marzo 2024

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