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Simone Weil, Sulla soglia del mistero

Ilaria Vellani

A ottant’anni dalla sua morte, Simone Weil parla ancora alla nostra intelligenza, provoca la nostra partecipazione, ci convoca sulle tante soglie sulle quali attendere: come quella della possibilità di una piena giustizia, quella della fascinazione del potere e del suo depotenziamento, quella di un pensare il femminile in modo aperto e decentrato.

Ottant’anni fa, nell’agosto del 1943 ad Ashford in Inghilterra moriva Simone Weil, filosofa francese, di origine ebraica. Era giunta in terra inglese per poter partecipare come redattrice al Comitato nazionale di France libre di Charles De Gaulle, passando prima per il sud della Francia occupata, poi per New York dove si era rifugiata con i genitori. Alla sua morte aveva solo trentaquattro anni. In questa troppo breve esistenza la vita e il pensiero della Weil hanno scritto alcune delle pagine più belle, più dense, più penetranti per la comprensione degli anni Trenta, ma soprattutto per le dinamiche del potere e per la possibilità di trovare una vita alternativa alla forza e alla violenza.

Quello di Simone è un pensiero che si forma in uno sforzo di attenzione estremo, volto a renderlo libero da ogni sovrastruttura, da ogni condizionamento: «il metodo proprio della filosofia consiste nel concepire in modo chiaro i problemi insolubili nella loro insolubilità, quindi nel contemplarli senz’altro, fissamente, instancabilmente, per anni, senza nessuna speranza, nell’attesa. Se ci atteniamo a questo criterio, ci sono pochi filosofi. Pochi è già dire tanto. Il passaggio al trascendente avviene quando le facoltà umane – intelligenza, volontà, amore umano – cozzano contro un limite, e l’essere umano resta sulla soglia, al di là della quale non può fare un passo, e questo senza lasciarsene distogliere, senza sapere ciò che desidera e teso nell’attesa. È uno stato di estrema umiliazione. Impossibile a chi non è capace di accettare l’umiliazione»1 .

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