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Naufraghi. “I senza nome”. Viaggio a Lampedusa tra gli ultimi custodi della pietà umana.

NANDO DALLA CHIESA

“I senza nome”. Non è un film di avventurieri o di agenti segreti. È il titolo di uno splendido docufilm su Lampedusa che racconta come quell’isola simbolica offra la terra del decoro a chi vi è arriva dal mare privo di nome, il viso deformato dall’ultimo terrore, sbattuto come pacco dalle onde. Accolto da esseri sconosciuti che mantengono acceso il barlume della pietas. E che dunque dedicano la vita a dare a lui e a mille altri come lui sepoltura in terra straniera, a cercare il suo nome, a scriverlo per i posteri, anche con l’indice che affonda nella calce. Cambiando il suo destino almeno da morto: nessuno prima, ma segnato da una sua sacralità dopo, in mezzo ai fiori e alle piante di un cimitero che è insieme storia, cuore e religione. È un docufilm che insegna cose grandi e profonde.

Proiettato in anteprima in un’aula di Scienze Politiche dell’università di Milano, ha lasciato senza fiato gli studenti. Che difficilmente dimenticheranno una testimonianza tanto radicale del loro tempo. Senza tentare qui una recensione che non mi spetta, dirò dunque che in quaranta minuti ho avuto la più convincente, perentoria dimostrazione che la comunicazione non deve essere per forza scoppiettante, ritmi e immagini rutilanti, veloci-mi-raccomando-sennò-la-gente-si-addormenta. Ma quale addormentarsi, le immagini scorrono lente come nel Sale della terra di Salgado, sembrano onde del mare in un pomeriggio di bonaccia. La cazzuola che assesta e riassesta la calce intorno a un nome, a una mattonella decorata su una tomba, sembra guadagnarsi il paradiso proprio per la sua lentezza. Il colore blu del cielo su cui neanche una nuvola osa comparire, appare immobile proprio mentre si sta celebrando il dramma epocale della mobilità dell’uomo. Ci si chiede chi abbia sancito per tutti che anche l’arte deve andare di corsa, che dal cinema debbano nascere impressioni sincopate e non pensieri che vagano nell’animo scuotendolo.

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