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Scuola. Diventare comunità educante

DONATO DE SILVESTRI

L’ art. 24 del Ccnl, riprendendo il Dl 297/94, afferma che la scuola é una comunità di dialogo, di ricerca, di esperienza sociale, improntata ai valori democratici e volta alla crescita della persona in tutte le sue dimensioni. In essa ognuno, con pari dignità e nella diversità dei ruoli, opera per garantire la formazione alla cittadinanza, la realizzazione del diritto allo studio, lo sviluppo delle potenzialità di ciascuno e il recupero delle situazioni di svantaggio, in armonia con i principi sanciti dalla Costituzione e dalla Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia, approvata dall’Onu il 20 novembre 1989, e con i principi generali dell’ordinamento italiano”.

È un’affermazione ricca di significati, che qualifica la scuola in termini di pluralità, di relazioni, di inclusione, di progettualità partecipata. Ma cosa si intende per comunità? E quali sono i presupposti di una comunità educante oggi e in prospettiva futura?

UN PO’ DI STORIA

Il concetto di comunità rinvia a quello di endogruppo, ossia di un’entità interna che rimarca i confini tra chi sta dentro e chi fuori. Gallissott (1) ne individua i tratti fondamentali nell’intensità delle relazioni sociali, nel senso di vicinanza e solidarietà, nella condivisione della lingua e delle pratiche di consumo, negli scambi rituali, in segni di riconoscimento e manifestazioni, anche religiose, di affermazione collettiva. In ogni caso quello della comunità è un argomento che ha da sempre interessato la ricerca sociologica, la quale, in estrema sintesi, ha seguito due diversi approcci. Il primo è quello psicologico che ha focalizzato l’attenzione sulla qualità dei rapporti individuali e sull’influenzamento reciproco, sulla rilevanza degli atteggiamenti solidali, sul livello di integrazione ed inclusione, sull’identificazione e sul senso di appartenenza, nonché sull’amare.

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Politica. Gran rischio tra non-voto e populismi

LEONARDO BECCHETTI

Le élite tecnocratiche del nostro Paese, quelle che senz’altro hanno le competenze migliori e la conoscenza più approfondita dei meccanismi economici e sociali, sono turbate e costantemente sorprese e spiazzate dai risultati elettorali che si susseguono. L’area del non-voto continua a crescere e in molte democrazie europee sta diventando sempre di più il maggior partito. Lo scontento, la polemica, l’indignazione e persino la rabbia di tanti elettori si esprime, contemporaneamente, in voti di protesta verso movimenti a torto o a ragione bollati come ‘populisti’. Dopo una breve tregua, nella fase iniziale della pandemia, con un ritorno di rispetto e di attenzione per gli ‘esperti’, i problemi di fondo del sistema vanno riemergendo. È quasi inevitabile che ogni ceto sociale tenda a vivere la propria vita circondato da persone che hanno le stesse idee e lo stesso tenore di vita (praticamente il contrario di quello che dice spesso papa Francesco, quando sottolinea che dobbiamo imparare a vedere il mondo con lo sguardo degli ‘ultimi’).


Eppure basterebbe pochissimo per mettersi nei panni degli altri perché anche all’interno delle stesse grandi città le diseguaglianze crescenti sono visibili nei quartieri e nei territori e basta fare un giro per le periferie per capire quanta parte del Paese si senta tagliata fuori, messa ai margini e guardi con preoccupazione il susseguirsi di choc e di crisi che rendono il nostro futuro sempre più incerto. Quello che le élite, che hanno in mano le competenze per affrontare e gestire molti dei problemi che abbiamo di fronte, dovrebbero comprendere in fretta è che solo mettendo i cittadini al centro del progetto, facendoli sentire protagonisti possono evitare derive antisistema.

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