Archivi tag: nazismo

Sophie Scholl, una giovane donna contro Hitler

SANTE MALETTA

Il 9 maggio 1921 a Forchtenberg, una piccola città nei pressi di Stoccarda, nasce Sophie Scholl. Il suo nome è indissolubilmente legato a quello della Rosa Bianca, utilizzato come firma di sei volantini anti-nazisti distribuiti principalmente per posta tra il giugno 1942 e il febbraio 1943. Non si tratta anzitutto di un movimento di resistenza, bensì di un gruppo di persone unite da una profonda amicizia. In una lettera Sophie parla così dei propri compagni: “Gioiresti di questi volti, se tu li potessi vedere”. Sono soprattutto studenti dell’Università di Monaco, ma un ruolo importante lo gioca anche il loro docente di filosofia Kurt Huber.militare russo

Il 18 febbraio 1943, insieme al fratello Hans, Sophie distribuisce copie del sesto volantino nell’atrio della sua università. Non si tratta di un gesto avventato: i due sapevano bene che cosa li aspettava. Il loro arresto fu il primo di una serie che vide coinvolti i membri della rete clandestina non solo a Monaco ma anche in altre città tedesche, a testimonianza della diffusione di questa trama di rapporti. Tutti furono giudicati colpevoli e condannati a pene esemplari. I fratelli Scholl e il prof. Huber, insieme ad altri tre amici, vennero condannati alla ghigliottina.

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La strage nazista delle Fosse Ardeatine a Roma 80 anni fa

MATTEO LUIGI NAPOLITANO

«Stampa americana pubblica che circa 300 Italiani, tra cui Vittorio Orlando, Mario Badoglio, figlio del Maresciallo, e Thaon de Revel, sono stati fucilati nel Colosseo, Roma, giovedì 23 mese corrente, aggiungendo che Santa Sede avrebbe protestato». Questo dispaccio con notizie ancora inesatte e frammentarie fu inviato al Vaticano il 28 marzo 1944 dal Delegato apostolico a Washington, mons. Amleto Giovanni Cicognani. Esso, tuttavia, dà un’idea piuttosto chiara su una tragedia che ancora dai contorni oscuri: l’eccidio delle Fosse Ardeatine.

L’efferato delitto fu perpetrato dai tedeschi occupanti di Roma come vendetta per un’azione condotta il 23 marzo in via Rasella dai partigiani dei Gruppi di Azione Patriottica (GAP), che fecero esplodere un ordigno celato in un carretto al passaggio della compagnia tedesca Bozen, provocando la morte di trentatré soldati.

La rappresaglia germanica fu condotta rastrellando nel carcere di Regina Coeli e nella prigione di via Tasso dieci italiani per ogni tedesco morto a via Rasella. Le ventiquattr’ore intercorse fra l’attentato e l’eccidio delle Fosse Ardeatine furono drammatiche. Alla Segreteria di Stato vaticana era giunta una notizia, annotata da un minutante alle ore 10,15 del 24 marzo 1944. Si riportava quanto segue: «L’Ing. Ferrero, del Governatorato di Roma, dà i seguenti particolari circa l’incidente di ieri: il numero delle vittime tedesche è di 26 militari; tra i civili italiani si lamentano tre o quattro morti; non è facile ricostruire la scena dato che tutti si sono dati alla fuga; alcuni appartamenti sono stati saccheggiati e la polizia tedesca ha preso l’assoluto controllo della zona senza permettere ingerenza di altre autorità; sembra ad ogni modo che una colonna di automezzi tedeschi attraversando via Rasella abbia la responsabilità di aver provocato gli italiani che poi avrebbero lanciato delle bombe dall’edificio di fianco al Palazzo Tittoni; finora sono sconosciute le contromisure: si prevede però che per ogni tedesco ucciso saranno passati per le armi dieci italiani. L’ Ing. Ferrero spera di dare più tardi maggiori particolari».

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Perché sono andata ad Auschwitz

BENEDETTA TOBAGI


In tempo di guerra, la memoria spesso si riduce a un’arma. Anche quella della Shoah. Cosa significa visitare i campi di sterminio a due anni dall’invasione dell’Ucraina e sei mesi dopo il 7 ottobre, mentre l’epiteto “nazista” e l’accusa di antisemitismo sono agitati come armi tattiche per stroncare qualunque dibattito, mentre si riaffacciano i più odiosi attacchi agli ebrei e le sensibilità “a corrente alternata”, chi ignora le vittime del massacro di Hamas, chi si mostra cieco alla carneficina consumata da mesi a Gaza? Possiamo coltivare una memoria che alimenti la cultura dei diritti umani e l’empatia per il dolore dell’altro, anziché ridursi a monumento retorico oppure, peggio ancora, a un credito irrisarcibile da brandire a giustificazione di nuovi orrori?

Per scoprirlo, mi sono unita a uno dei tanti viaggi della memoria organizzati da oltre un decennio dall’associazione Deina che, partendo dalla Cracovia della fabbrica di Oskar Schindler, conduce centinaia di ragazzi dai 17 ai 25 anni (ma per fortuna sono ammessi anche un po’ di adulti) in un percorsodi conoscenza che termina nell’ anus mundi del Novecento, i campi di Auschwitz e Birkenau.

L’esperienza è forte, intensamente spiazzante. La nuda potenza dei luoghi spazza via le partigianerie ottuse, l’eco delle polemiche ideologiche si spegne in fretta. Nel silenzio germogliano i dubbi, le domande senza risposta. Camminando nel ghetto della città polacca, a un tiro di schioppo dal confine ucraino, quando la guida racconta i mesi terribili del 1939 che precedettero l’aggressione nazista, i dilemmi circa le prospettive del riarmo europeo e il sostegno militare a Kiev assumono proporzioni ancora più angosciose. Deina lavora proprio in questa direzione, perché dall’incontro con l’abisso scaturisca un nuovo senso di responsabilità rispetto al presente e al futuro: Auschwitz è il momento terminale di un piano inclinato che comincia molto prima, con piccoli atti di chiusura e discriminazione, quando si smette di vedere nell’altro da noi un essere umano.

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“La libertà aiuta, protegge. É un bene immenso, senza libertà non si vive, si vegeta”

NUTO REVELLI

Pubblichiamo il discorso che Revelli ha tenuto il 29 ottobre del 1999 all’università di Torino, quando gli è stata conferita la laurea honoris causa in Scienze della Formazione. Il testo è contenuto nel libro I conti con il nemico, Aragno.

La laurea Honoris causa che questa prestigiosa Università, e in particolare la Facoltà di Scienze della Formazione mi hanno conferito, mi inorgoglisce perché premia il mio impegno di cultore della ricerca, di cultore delle “fonti orali”. Ma soprattutto mi intimidisce perché la maggior parte del merito delle mie indagini spetta agli autori delle storie di vita che ho raccolto, spetta ai protagonisti del mio “mondo dei vinti”. È in questo senso che ho deciso di dedicare il mio intervento alla mia ignoranza e al prezzo per guarirne. Avevo vent’anni nel luglio del 1939, quando conseguii presso l’Istituto Tecnico di Cuneo il diploma di geometra. La guerra era alle porte, era sul punto di esplodere. Non per niente domandai subito di venire ammesso in un’Accademia militare – quella di Modena – per imparare quel mestiere. Altro che il geometra…Trascorsi due anni a Modena, in quella scuola severa come un seminario. Poi, con il grado di sottotenente venni assegnato al 2°Reggimento alpini, della Divisione “Cuneense”, la cui sede era a Cuneo, e che era appena rientrato dall’Albania. Erano stanchi i miei alpini, dopo le esperienze non certo esaltanti del fronte occidentale e del fronte greco-albanese. Diventarono subito i miei “maestri”.

Io dialogavo con loro, li ascoltavo con grande interesse. Mi intimidivano. Erano disincantati, severi nei giudizi: mai trionfalisti, mai retorici. Mi aiutavano a capire, a crescere. Avevano la famiglia, avevano la casa al centro di tutto. Il loro unico sogno era una “licenza agricola”.

Nel luglio del 1942, con il 5°Reggimento alpini della Divisione “Tridentina”, venni inviato sul fronte russo.

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Bruck: “Voglio insegnarvi a non odiare”

EDITH BRUCK, intervistata da LUCA MONTICELLI

«Finché avrò la forza di parlare racconterò ai giovani la mia storia. Io vado avanti perché la memoria è fondamentale, vitale. Anche solo salvare la coscienza di dieci ragazzi significa che la mia esistenza non è stata inutile». Edith Bruck, scrittrice, sopravvissuta ai lager nazisti, continua a portare nelle scuole la sua testimonianza per non dimenticare l’orrore della Shoah. Nata in un piccolo villaggio di contadini in Ungheria, a 13 anni, nel maggio del ‘44, con il padre, la madre e altri familiari, Edith Bruck viene strappata dalla sua casa e deportata in un ghetto al confine con la Slovacchia. Da lì ad Auschwitz e poi a Kaufering, Dachau e infine a Bergen Belsen fino al 15 aprile del ‘45, quando il campo di sterminio è liberato dall’esercito britannico. Finita la guerra raggiunge la sorella a Budapest e comincia il suo lungo viaggio: prima nell’allora Palestina, poi di nuovo in Europa, ad Atene, a Zurigo, a Napoli e a Roma, dove vive dal 1954.

Oggi assiste incredula e attonita a un mondo costantemente in guerra, il suo incrollabile spirito da intellettuale impegnata la spinge a denunciare le ingiustizie, e a mettere in guardia l’Italia e l’Europa perché «l’unicità della Shoah venga preservata», sottolinea. La strumentalizzazione di chi pensa di «paragonare la Shoah al dramma di Gaza mi fa soffrire. L’antisemitismo è ancora molto presente nella nostra società: gli ebrei sono accusati di una colpa collettiva. Ci dicono “voi” e ci accusano delle politiche del governo israeliano, mi chiedo cosa c’entri un ebreo italiano o francese con quel che decide Netanyahu». Il suo ultimo libro, edito da La nave di Teseo, è uscito in questi giorni, si intitola I frutti della memoria e raccoglie le lettere e i disegni degli studenti incontrati da Bruck negli ultimi anni.

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Antisemitismo, il 15% degli italiani nega l’Olocausto

Eurispes, Comunicato stampa

In Europa si parla di nuovo di antisemitismo: in seguito al conflitto tra Israele e Hamas, che ha riacceso la miccia della tensione in Medio Oriente, si sono verificati numerosi atti di intolleranza. Francia, Austria e Russia sono stati teatro di violenti gesti antisemiti che ricordano un passato che diventa improvvisamente vicino. Anche a Roma si sono verificati gesti di chiara matrice antisemita: a Trastevere sono state deturpate alcune pietre d’inciampo, testimonianza in memoria del rastrellamento degli ebrei romani avvenuto nell’ottobre del 1943. Ma i gesti ai quali assistiamo oggi, in relazione al conflitto odierno, hanno in realtà radici più profonde, legate allo scetticismo e al complottismo che dilaga nel presente e guarda anche al passato. È quanto emerso nello studio condotto dall’Istituto Eurispes già nel 2020, che poneva l’accento sul problema dell’antisemitismoe su tutti i fenomeni ad esso connessi. Dalle opinioni raccolte si evinceva che una parte minoritaria ma non trascurabile degli italiani non credeva all’Olocausto e abbracciava alcuni stereotipi legati al popolo ebraico.

Più di un italiano su dieci nega l’Olocausto

Nel Rapporto Italia del 2020 emerse, appunto, che il 15,6% degli italiani nega l’Olocausto, a fronte dell’84,4% non concorde. Invece l’affermazione secondo cui l’Olocausto non avrebbe prodotto così tante vittime come viene sostenuto trova una percentuale di accordo solo lievemente superiore: 16,1%, mentre il disaccordo raggiunge l’83,8% degli italiani. Cresce  il numero di cittadini secondo i quali lo sterminio per mano nazista degli ebrei non è mai avvenuto: nel 2004 erano il 2,7%, +13,2% nel 2020.Secondo il 23,9% degli italiani, inoltre, gli ebrei controllerebbero il potere economico e finanziario, e a detta di più di un quinto degli italiani intervistati (22,2%) controllerebbero i mezzi d’informazione. La tesi secondo cui gli ebrei determinano le scelte politiche americane incontra la percentuale più elevata di consensi, pur restando minoritaria: il 26,4%, contro un 73,6% di pareri contrari.

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Hamas. Quella furia assassina contro i bambini mi fa ripensare ai nazisti

DACIA MARAINI

Il primo nome che viene in mente è Erode, che avendo saputo da profezie ripetute, della nascita di un piccolo re che l’avrebbe spodestato, decise di fare uccidere tutti i bambini nati a Betlemme. Lo racconta Matteo nel Vangelo. Disegni e quadri di tanti secoli ci mostrano piccoli corpi afferrati per i piedi e fatti a pezzi con la spada, minuscole creature trascinate sulle strade per porgerli al soldato boia. Eppure, in tanti dipinti anche raccapriccianti, a nessun pittore è venuto in mente di rappresentare decapitazioni di bambini. Tagliare la testa ha un significato simbolico forte… Per un adulto significa rendere chiaro che si vuole eliminare il pensiero di quella testa, la parola diabolica, pericolosa, di quel capo. Ma cosa significa la decapitazione di un bambino, così sadica e brutale, ma anche così priva di senso logico?

Si può provare piacere a tagliare la testa a un bambino? La ragione ci dice che solo un pervertito può provare questo piacere. Ma quando i pervertiti sono tanti, viene da pensare che si tratti di un piacere condiviso, che non deriva da un gusto privato, ma da un valore comune che riguarda il rapporto con un dio feroce e vendicativo. Il fanatismo religioso, che non riesca a riconoscere l’umano, ma solo il nemico da eliminare, diventa una spinta al massacro.

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Nazismo. La strage di rom e sinti, 2 agosto ’44, il giorno del porrajmos

DIJANA PAVLOVIC

Nel maggio del 1944 Adolf Eichmann, responsabile del trasporto degli ebrei nei campi di concentramento nazisti, decise di trasferire oltre 4000 ebrei ungheresi nel Lager di Auschwitz- Birkenau. Per far loro spazio il responsabile di Auschwitz-Birkenau decise la liquidazione dei 7000 rom e sinti dello Zigeneurlager, il “campo degli zingari”. Ma il 16 Maggio, giorno della liquidazione, i rom e sinti si ribellarono e con armi di fortuna, pale, sassi, pentole, dissero NO alla loro liquidazione.

Le SS allora trasferirono tutte le persone ancora valide allo sfruttamento, circa 3000, in altri Lager, e nella notte tra il 2 e il 3 Agosto 1944 tutti i rom e sinti rimasti, 4300 donne, vecchi e bambini, vennero passati nelle camere a gas.

Quel 2 Agosto viene ricordato come giorno del Porrajmos, il giorno del genocidio del popolo romanì.

in “l’Unità” del 3 agosto 2023

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Nazismo. La rivolta degli ebrei nel campo di sterminio di Treblinka

MARCELLO PEZZETTI

La Germania nazista pensava che gli ebrei, per la sola ragione di essere nati tali, avrebbero dovuto “sparire” dall’Europa, fino al 1941 attraverso le espulsioni all’Est, poi con l’annientamento fisico. Ora, come reagirono gli ebrei a questo tentativo di sterminio, definito “Soluzione finale del problema ebraico”? Ci fu una concreta “resistenza” alla politica omicida del Reich?

La tesi più diffusa rimane quella della “passività ebraica”, sostenuta da personalità tra le più rilevanti – anche da parte ebraica – della cultura e della storiografia del dopoguerra. Hannah Arendt definì la resistenza ebraica come «pietosamente limitata, incredibilmente debole e del tutto innocua» e Raul Hilberg scrisse che gli ebrei avrebbero opposto «parole ai fucili, dialettica alla forza».

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“Oggi l’Europa è testimone di crimini frutto di una rinnovata esasperazione nazionalistica” 

SERGIO MATTARELLA, Presidente Repubblica Italiana, Università Jacellonica di Cracovia

(omissis). Alle nostre spalle stanno secoli di tragedie in cui i popoli europei si sono contrapposti. La vostra terra ne è stata testimone e vittima, nella ricerca dell’indipendenza, nella conquista della libertà. Conserva ed esprime storia. E proprio la lezione della storia ha dato, nel secondo dopoguerra e non senza contrasti, un impulso irresistibile al progetto di integrazione europea, così come oggi lo conosciamo. Sino al suo completamento, dopo la fine dell’Unione Sovietica, con il ricongiungimento di Europa occidentale ed Europa centro-orientale. Ma prima di giungere a questo storico approdo di integrazione d’Europa, le “prove generali” della Seconda guerra mondiale ebbero luogo qui, nell’Europa centro-orientale, in Cecoslovacchia, in Polonia, con l’aggressione da parte della Germania nazista e dell’Unione Sovietica stalinista, frutto di ideologie di esasperazione nazionalistica e di potenza.Il massacro di Katyn, all’esordio del Secondo conflitto mondiale, ne è pagina eloquente. Ho appena reso omaggio alla lapide che qui accanto ricorda i docenti di questa Università deportati il 6 novembre 1939.

Ieri ho visitato, insieme ad un gruppo di giovani di ogni parte del mondo e insieme alle sorelle Bucci, due italiane miracolosamente sopravvissute da bambine agli orrori di Birkenau.

Oggi ricorre l’80° anniversario della rivolta del Ghetto di Varsavia.

La Memoria di quelle barbarie rimane indefettibile nelle nostre menti e nei nostri cuori.

Sono grato alla Polonia per l’impegno incessante per preservare e diffondere la memoria di quel che avvenne, affinché non possa più ripetersi.

Anche l’Italia è votata a questa causa. Dobbiamo intensificare la nostra azione, sapendo che in futuro potremo contare sempre meno sulle testimonianze dirette di quanto avvenuto e che dovremo trasmetterle e affidarle alle nuove generazioni. Pronunciare queste parole in una Università, tempio che tramanda, sviluppa e diffonde conoscenza, implicitamente affida a voi giovani la responsabilità del ricordo.

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