ERIO CASTELLUCCI, Lettera alla città di Modena, 31 gennaio 2024
Ognuno sta solo sul cuor della terra,
trafitto da un raggio di sole;
ed è subito sera.
La lirica Ed è subito sera, di Salvatore Quasimodo (1901- 1968), è un esempio di poesia ermetica: sono poche parole, penetranti come un graffito inciso su pietra, che concentrano l’esperienza profonda e drammatica dell’autore. Pubblicata nel 1942, in piena Seconda guerra mondiale, era già comparsa dodici anni prima come terzina finale di un componimento più ampio, dal significativo titolo Solitudini. Colpisce il ventaglio di evocazioni suscitate dal poeta siciliano in tre sole righe; evocazioni contrastanti, già a partire dalla prima parola: “ognuno”.
«Ognuno sta solo sul cuor della terra»
Il pronome indefinito “ognuno” richiama sia il singolo che la comunità: indica ciascun essere umano preso a sé e nello stesso tempo si riferisce all’insieme degli esseri umani. La solitudine, paradossalmente, ci isola e ci unisce: tutti la avvertiamo, ciascuno a modo suo; ma proprio perché nessuno ne è immune, la condividiamo con gli altri. Una certa dose di solitudine è connaturale all’essere umano, è una condizione esistenziale, che in misura e modi differenti tocca tutti. La solitudine si declina all’io e al noi, è muro e ponte insieme.
La tradizione culturale europea, del resto, riunisce le antiche antropologie biblica e greca, coniugando l’io con il noi, il muretto di protezione con il ponte di collegamento. La Bibbia, nelle sue prime paradigmatiche pagine, già almeno sei secoli prima di Cristo attribuisce alla creatura umana una dignità tale da essere “immagine di Dio”: non semplicemente in quanto individuo singolo e isolato, ma in quanto essere in relazione: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò» (Genesi 1,27). E Aristotele, un paio di secoli dopo, definisce l’uomo sia “animale logico” sia “animale politico” (Politica, 1253a 9-10): per lui l’essere umano è individuo razionale e relazionale insieme.
«Nessun uomo è un’isola» scriveva, esattamente quattro secoli fa, il poeta John Donne (1572-1631). Eppure spesso ci sentiamo soli. Avvertiamo la fatica di comunicare: molte sensazioni, esperienze, emozioni e riflessioni non riusciamo a trasmetterle o non vogliamo farlo. Alcuni muretti, certo, sono necessari attorno all’io: per custodire l’intimità personale, impedire di violarla a chi non ne ha diritto e coltivare le proprie attitudini. Esiste così una solitudine “buona” e cercata, presidio della dignità individuale, della profondità spirituale di ognuno, della peculiare storia di ciascuno.
Aveva però ragione John Donne: sebbene una dimensione del mio essere appaia come un’isola, per non annegare nell’alta marea dell’egoismo occorre che l’io getti dei ponti verso gli altri esseri umani. L’isolamento richiama il mito di Narciso, il giovane bellissimo che, insensibile all’amore per gli altri, fu condannato per sempre dagli déi ad innamorarsi perdutamente della propria immagine riflessa in una pozza d’acqua, contemplandola fino a morirne angosciato. Sarà dunque possibile per “ognuno” proteggere la propria individualità senza cadere nel narcisismo? Si potrà superare l’isolamento, mantenendo la solitudine “buona” e cercata e vincendo quella “cattiva” e subita, la quale ci porta a tagliare i contatti, a ripiegarci su noi stessi e rimanere chiusi entro la cornice del nostro piccolo specchio?
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