Archivi tag: Militarismo

Il pacifismo arcaico

DOMENICO QUIRICO

Combattere contro la guerra. Perché il male è il male, l’idiozia è l’idiozia, il massacro è il massacro. Questo è il pacifismo. La sua virtuosa perennità si radica proprio nel ritenere che nessuna ragione al mondo consente di farsi spettatori passivi, propagandisti o peggio ancora complici della guerra e dei suoi riferibili orrori. Era così ai tempi della battaglia di Romain Rolland e di un altro pugno di uomini celebri e oscuri che si batterono, invano, nel 1914 contro l’inutile strage della Grande Guerra. La gloriosa battaglia dei pacifisti per fermare l’inutile strage in Ucraina (e un’ altra guerra mondiale), più di un secolo dopo, appare altrettanto tragicamente destinata alla sconfitta, il doloroso spasimo a vuoto di una impotenza. Con la differenza che oggi non si vedono in giro, al loro fianco, neppure gli intellettuali capaci di resistere almeno con un po’ di ossificata letteratura ai fanatismi e agli interessi, che provino vergogna di invadere perfino la pace; e ricordino che, se bisogna battersi poiché non si può fare diversamente, allora, non bisogna darvisi del tutto, a quella necessità, e pensare al mondo del dopo. Ecco: il gigantesco, devastante tradimento dei chierici.

Una premessa per chiarire. Per pacifisti intendo coloro che invocano una conclusione senza vinti né vincitori, non certo quelli che si camuffano dietro la parola pace per dar dignità a disfattismi ripugnanti o invitano a diserzioni, aperte o larvate, rispetto alle responsabilità del Prepotente del Cremlino.

Intendo non cenacoli pacifisti da salotto o da editoriale. O che vogliono lucrare qualche preferenza elettorale distinguendosi dal coro degli schierati, dei senza dubbi, dei devoti alle pressioni padronali della atlantica superpotenza. Intendo i non iscritti a niente, umili cittadini, famiglie, gli antichi uomini di buona volontà; come coloro, per esempio, che da 57 sabati, da quando è iniziata la guerra, si ritrovano nel centro di Torino per un raduno di testimonianza. Ebbene: il numero non supera mai la cinquantina, l’attenzione che i passanti dedicano loro, in particolare i giovani, è distratta, indifferente, infastidita.

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Martin Luther King. La sua eredità a 55 anni dal suo assassinio

PAOLO NASO

Cinquantacinque anni fa, il 4 aprile del 1968 a Memphis, nello stato del Tennessee, fu ucciso il pastore battista afroamericano Martin Luther King, leader del movimento per i diritti civili. Nato in un’America ancora segregata, in cui vi erano spazi solo per i bianchi e altri solo per i neri, dove nei fatti si impediva il diritto di voto agli afroamericani, in un tempo ancora segnato dal razzismo più violento, King morì in un paese che stava cambiando. La legge del 1965 aveva finalmente riconosciuto anche ai neri il pieno diritto di voto, formalmente erano decadute le leggi sulla segregazione e, almeno in alcuni ambiti, si avviava una riflessione critica sul peccato originale dell’America: il razzismo, con i suoi tragici corollari della tratta, del commercio e dell’utilizzo degli schiavi per fare progredire l’economia nazionale. Fu una pagina immorale e anche blasfema perché, con rarissime eccezioni, chiese e comunità cristiane degli Stati Uniti accettarono lo schiavismo come un fatto naturale, una variabile possibile dei rapporti sociali ed economici.

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Centenario del Milite ignoto, l’insegnamento è il «rifiuto della guerra»

DAVIDE CONTI

La retorica celebrativa, ovvero il linguaggio pubblico utilizzato dagli Stati come espressione politica delle proprie liturgie civili, genera inevitabilmente una contraddizione esplicita tra il racconto epico ed il principio di realtà della storia.

Così il centenario del Milite Ignoto, la traslazione dei resti di un soldato caduto al Vittoriano, si trasforma da occasione di rielaborazione collettiva attorno ai significati epocali della devastazione della guerra mondiale (drammaticamente al centro del nostro presente nell’era del conflitto globale) a strumento declamatorio di processi unificanti che, giocoforza, si presentano come più immaginari che reali di fronte ai fatti della storia: dai massacri dei campi di battaglia alla distruzione dell’Europa; dalle fucilazioni degli stessi soldati italiani (ancora oggi non riabilitati ed espulsi dal racconto nazionale) ordinate dai Tribunali militari speciali sulla base delle circolari del generale Cadorna, alla successiva brutalizzazione della vita civile restituita dal ritorno dalle trincee dei reduci travolti da quell’esperienza totale.

Questo centenario si sarebbe potuto configurare come un’opportunità per guardare da un lato alla traiettoria storica percorsa dalle masse contadine, operaie, proletarie e sottoproletarie (che pagarono il prezzo più alto alla guerra in termini sociali e di vite umane) al tempo della loro irruzione nella sfera pubblica; dall’altro alla condotta della monarchia sabauda e delle classi proprietarie e militari italiane che a quell’«inutile strage», come la definì Benedetto XV, condussero l’intera società.

In realtà l’eterna narrazione, promossa oggi dalle stesse classi dirigenti e politiche del Paese, di una presunta debolezza dell’identità nazionale finisce per riproporre, nel discorso pubblico, temi e caratteri propri del nazionalismo volti a rappresentare un vincolo astratto tanto tra i caduti in battaglia ed uno Stato incarnato dal re come padre della patria, quanto dalla nazione come corpo unico-organico e madre dei figli-soldato.

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