ELENA CATTANEO e LILIANA SEGRE
«Ha chiesto di parlare l’onorevole Matteotti. Ne ha facoltà». Era il pomeriggio del 30 maggio di cento anni fa quando Giacomo Matteotti prese la parola per l’ultima volta dagli scranni della Camera per pronunciare quello che è ricordato come «il discorso della morte».
Con un coraggio che rasentò, anzi superò, la temerarietà, infatti, Matteotti denunciò gli abusi e le violenze con cui il fascismo aveva vinto le elezioni politiche del 6 aprile 1924, tenutesi con la famigerata Legge Acerbo.
Lo stenografico di quella seduta va letto e conosciuto da tutti, a partire dai giovani nelle scuole. Non ha nulla di polveroso, di lontano da noi. Le parole, gli argomenti basati su fatti precisi che il deputato socialista offrì all’aula raccontano come si consumò l’aggressione brutale e sistematica al processo elettorale di una democrazia liberale. I fatti narrati, anche quelli più minuti connessi agli ostacoli alla raccolta firme, alla presentazione delle liste, o quelli legati alla impossibilità dei rappresentanti di lista delle opposizioni di presenziare ai seggi, testimoniano l’esercizio della violenza politica diffusa nel Paese, che ebbe l’effetto di ridurre la volontà popolare a un guscio vuoto a uso e consumo del potere.
Lo spartito di lordure denunciato allora da Matteotti è oggi il presente di tanti Paesi e luoghi, anche a noi prossimi, dove il voto — né libero, né segreto — non è che il simulacro di quel che consideriamo democrazia.
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