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Perché il dolore? L’eterna domanda che inquieta la fede

ROBERTO RIGHETTO

Per il teologo Magnus Striet filosofi e scrittori mostrano il dramma, ma la sola risposta è nella vita che risorge

«Non essere mai nati è la cosa migliore e la seconda, una volta venuti al mondo, è tornare lì donde si è venuti»: un sentimento accorato e insieme nichilista si ritrova in queste parole recitate dal coro della tragedia Edipo re di Sofocle. Espressione di una visione dell’esistenza improntata al pessimismo totale propria di buona parte della cultura ellenica – si pensi ai lirici greci – ma anche di una tradizione consolidata del pensiero occidentale, il cui emblema è Schopenhauer. «Una visione purificata da tutte le scorie religiose», commenta il teologo tedesco Magnus Striet nel suo libro Il silenzio di Dio. Desiderio di resurrezione e scetticismo, appena edito da Queriniana (pagine 190, euro 22).

Docente di Teologia fondamentale e antropologia filosofica alla Facoltà teologica dell’Università di Friburgo, Striet s’interroga sulla questione del dolore e sulla presenza del male che affliggono l’esistenza umana, confrontandosi ampiamente con i tentativi di risposta che non solo la teologia, ma la letteratura e la filosofia hanno cercato di dare nel corso dei secoli. E cita una lettera di Johannes Brahms inviata a un amico per la nascita del secondo figlio: « In tal caso, non si può più augurare il meglio – che dovrebbe essere non nascere. Possa il nuovo cittadino del mondo non pensare mai in questo modo, ma possa rallegrarsi per molti anni del 7 maggio e della sua vita». Righe da cui traspare rassegnazione, esattamente come nel caso degli antichi greci.

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#la fantasia

GIANFRANCO RAVASI

Lascia sempre vagare la fantasia. È sempre altrove il piacere: solo a toccarlo, si scioglie, dolce, simile alle bolle d’acqua della pioggia intensa. Lasciala vagare lei, l’alata… Spalanca la porta della gabbia della mente, e vedrai che si slancerà volando verso il cielo.

Nato a Londra nel 1795, è morto a Roma a soli 26 anni, è considerato uno dei grandi poeti romantici coi suoi poemi e le sue odi, opere segnate da un’aspirazione continua alla bellezza, ma anche scandite dalla sofferenza più intensa: «il piacere è spesso un visitatore – cantava – ma è il dolore ad attaccarsi a noi crudelmente e a lungo». Stiamo evocando John Keats del quale abbiamo citato altre righe che non perdono la stimmata dell’amarezza («sempre altrove è il piacere: solo a toccarlo, si scioglie», come accade per le gocce d’acqua). Tuttavia, entra in scena un’altra realtà umana, la fantasia, simile a una creatura alata.

Essa apre la serratura della mente che è simile a una gabbia e vola verso l’infinito. Si può essere condannati su una sedia a rotelle, oppure votati a un’esistenza monotona e ristretta o persino relegati in una cella, ma la fantasia può condurti altrove, verso orizzonti che la lettura o la libertà del cuore rendono aperti e sconfinati e all’interno dei quali si può procedere e scoprire cose sempre nuove. Come affermava il massimo poeta connazionale di Keats, William Shakespeare, «potrei essere rinchiuso in un guscio di noce e sentirmi re dello spazio infinito».

in “Il Sole 24 Ore” del 17 luglio 2022

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