Archivi tag: Filosofia

Filosofia. La vita umana: al confine tra due nulla o tra due luci?

GIANFRANCO RAVASI

Nascita e fine vita. Catherine Chalier attinge alla tradizione ebraica per cercare un centro che designa l’affioramento dell’unità divina in ogni umano

L’immagine è terribile: «La culla dondola su un abisso. La nostra esistenza è soltanto un fuggevole spiraglio di luce tra due eternità di tenebre». Così Nabokov nel suo autobiografico Parla, ricordo, tradotto da Mondadori nel 1962. A lui farà eco Bufalino: «La vita: uno squarcio di luce che la morte, come una chiusura lampo, fulmineamente richiude». L’intuizione, però, occhieggiava già nei Diari di Kafka quando descriveva la sua vita come l’affannosa ricerca di «una striscia assoluta di felicità», simile a una lama di luce in un oceano di tenebra.

A Nabokov rimanda esplicitamente fin dal titolo Come un chiarore furtivo Catherine Chalier, filosofa e scrittrice di grande originalità, discepola di Lévinas, appassionata studiosa di Spinoza e Rosenzweig: già questi percorsi di ricerca rivelano la sua insonne esplorazione del pensiero ebraico sia moderno sia del passato giudaico. Dopo aver insegnato alla nota università di Paris X – Nanterre, dalla capitale francese ove continua a vivere fa risuonare la sua voce con intensità attraverso le sue pagine spesso fragranti di intuizioni.

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Filofosia. Byung-Chul Han: il racconto è l’antidoto alla fabbrica dei sogni

ROBERTO RIGHETTO

In “La crisi della narrazione” Byung-Chul Han sostiene che l’analisi del tempo presente passa dal recupero del racconto come forma di guarigione dall’effimero, spesso promosso dalla tecnologia

Che la si connoti con il disincanto del mondo (Max Weber), la perdita d’aureola (Walter Benjamin) o la fine dei grandi racconti (Jean-François Lyotard), la nostra è certamente l’epoca dello smarrimento. Il secolo ventesimo e quello che stiamo vivendo sono caratterizzati da stupefacenti progressi tecnologici ma sempre più accompagnati da un’incertezza profonda e dalla nostra incapacità di dare un significato agli eventi. Non è solo la paura per i nuovi conflitti, il terrorismo, le epidemie o i disastri ambientali a lasciarci impotenti e sbalorditi, ma il venir meno di quei riferimenti in grado di dare senso all’esistenza collettiva.

Ce ne parla l’ultimo libro di Byung-Chul Han, La crisi della narrazione (Einaudi. Pagine 114. Euro 13,00) in cui il filosofo sudcoreano da tempo residente in Germania prosegue la sua analisi del tempo presente. Fra i suoi numerosi volumi, in Italia perlopiù tradotti da Nottetempo, La società della stanchezza, La società della trasparenza e Nello sciame. Anche in questo illuminante saggio Han non effettua alcuna operazione nostalgica, tantomeno delle metafisiche onnicomprensive dell’800 che sono state in qualche maniera propedeutiche ai totalitarismi del ‘900, ma non può fare a meno di scagliarsi contro la società dei selfie e dello storytelling, che a suo dire hanno spodestato il vero significato delle narrazioni. Le quali sono «espressione di una tonalità emotiva del tempo» e hanno «un momento di verità interno », cosa che manca ai modelli narrativi oggi prevalenti, privi di «ogni forza di gravità ».

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Filosofia. Immanuel Kant. Grandezza e limiti della ragione umana

COSTANTINO ESPOSITO

Per ricordare un genio come Kant a trecento anni dalla nascita — Königsberg, 22 aprile 1724 — meglio non cedere al gusto della celebrazione, ma partire da alcuni dei nodi irrisolti del suo pensiero. Nodi che costituiscono un problema anche per la nostra epoca e rappresentano l’aspetto ancora vivente della sua riflessione, appunto perché ne colgono la permanente dimensione problematica. D’altronde, i grandi pensatori contribuiscono alla nostra comprensione filosofica del mondo proprio perché aprono alcuni problemi fondamentali, la cui portata risulta spesso più ampia e più duratura delle soluzioni dottrinali che essi stessi hanno proposto. Potremmo chiamare paradossi questi scarti nel gioco delle domande e delle risposte, dei problemi e delle dottrine, in quanto essi attestano una direzione contraria rispetto alle versioni standardizzate di una teoria filosofica, e con ciò la rimettono sempre in gioco.

Per celebrare dunque la memoria di un uomo di tre secoli fa, ma ben presente nei concetti fondamentali con cui ancora pensiamo, vorrei accennare a uno di questi paradossi. Kant non è l’autore di una vera e propria “filosofia” — intendendo per filosofia una dottrina che ci dica la verità su ciò che è la “realtà”, sulla coscienza e sul mondo, sull’io e su Dio. Kant è piuttosto colui che ha indicato il modo in cui funziona la nostra ragione, ciò che essa può e ciò che essa non può determinare, ciò che arriva a conoscere e ciò che deve pensare. Per questo motivo la filosofia kantiana ha la dimensione peculiare di una “critica”, cioè di una delimitazione dei diversi usi e dei diversi campi in cui la ragione umana realizza la sua capacità di conoscere e di pensare il mondo rigorosamente a priori, cioè sulla base della sua facoltà di stabilire delle leggi universali indipendentemente dall’esperienza. La ragione umana, in quanto ragione “pura”, deve partire solo da sé stessa e non da ciò che essa potrebbe attingere a posteriori da ciò che sta al di fuori o al di là di sé.

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Emmanuel Mounier e il cristianesimo in uscita

LUCIO BRUNELLI

È l’inverno del 1944, l’ultimo anno di guerra, l’Europa trasformata nel più sanguinoso e sterminato campo di battaglia nell’intera storia dell’umanità. Emmanuel Mounier si trova nascosto a Dieulefit, lontano da Parigi, dopo l’esperienza del carcere per la sua opposizione al governo filonazista di Vichy. È in questo paesino nel dipartimento della Drome che, giusto ottant’anni fa, scrive L’avventura cristiana, un libricino che ha influenzato la migliore gioventù del dopoguerra e conserva tutta intera, anche oggi, la sua carica profetica.

Mounier, 39 anni, stava vivendo un momento particolare della sua vita, con la piccola Francoise, sua figlia, in coma ormai da quattro anni; un’esperienza di dolore e di fede di cui resta una testimonianza commovente nelle lettere inviate alla moglie Paulette. A quel tempo gli alleati non erano ancora sbarcati in Normandia ma si cominciava a vedere un filo di luce tra le grandi tenebre che avvolgevano il pianeta. Mounier si interroga sul dopoguerra, su quali basi sarà possibile costruire una società in grado di riconoscere e proteggere il valore della persona umana, dopo i totalitarismi del Novecento. In altre opere svilupperà la sua idea di una «rivoluzione personalista e comunitaria».

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Filosofia. Derrida e i monoteismi: il perdono va oltre alla perdonabilità

MASSIMO GIULIANI

Raccolte in volume le dieci lezioni sul delicato e controverso tema morale del pensatore ebreo francese, per il quale il vero perdono deve saper andare oltre la perdonabilità e la prospettiva umana

Se vi è un tema sul quale la teologia ha assolutamente bisogno della filosofia, osiamo affermare, questo è il perdono. Non è un caso che esso torni in superficie, di norma, quando si dialoga tra ebrei e cristiani, nel tacito (ma sempre più spesso non tacito) assunto che quella dei cristiani sia una religione del perdono, mentre quella degli ebrei no. Ovviamente si tratta di un pregiudizio antiebraico: ebraismo e cristianesimo sono entrambe religioni del perdono divino e fraterno, e al contempo sono entrambe religioni della giustizia e dell’unicuique suum. Il cristianesimo non ha il monopolio del perdono. E tuttavia una certa retorica ecclesiale enfatizza tale questione perdendone di vista la complessità sia teologica sia etico-politica.

Per questo cade a fagiolo la recente pubblicazione per Jaca Book, a cura di Vittorio Perego (che insegna filosofia in una facoltà teologica), di un esteso seminario, in dieci lezioni, elaborato da Jacques Derrida negli ultimi anni del secolo scorso. Il volume si intitola Lo spergiuro e il perdono (pagine 424, euro 32,00) e nella prima parte costituisce l’articolato e originale contributo del filosofo ebreo francese, morto nel 2004, a una delle tematiche al centro del dibattito morale da parte ebraica nella seconda metà del Novecento.

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Filosofia. Sarthou-Lajus: «Viviamo incapaci di dipendenze felici»

NATHALIE SARTHOU-LAJUS, intervistata da SIMONE PALIAGA - Ascolta

«È il dramma dell’Occidente capitalista. Siamo come adolescenti travolti da pulsioni consumiste autodistruttive e inestinguibili. Bisogna educare a vivere la perdita»

«La dipendenza da una sostanza è inizialmente una ricerca fallita di indipendenza. È una ricerca di piacere che non implica la presenza di un’altra persona. La dipendenza da una sostanza sembra più facile da controllare rispetto alla dipendenza da qualcun altro. Dà la sensazione di poterne gestire il consumo e di poter smettere quando si vuole, sfuggendo così agli alti e bassi delle relazioni» racconta a “Avvenire” Nathalie Sarthou-Lajus, filosofa francese e vicedirettrice della rivista di spiritualità e cultura “Études”, curata dai gesuiti d’Oltralpe, oltre che autrice di Vertigine della dipendenza (Vita e Pensiero, pagine 76, euro 15).

Professoressa, perché la dipendenza non è riconosciuta come un valore nelle società liberali?

«La dipendenza ha un’accezione negativa perché associata alla perdita della libertà e dell’individualità. Eppure la dipendenza appartiene alla condizione umana. Non è solo la prima condizione del neonato o l’ultima dell’anziano legato alle cure degli altri, ma una situazione che possiamo sperimentare in diversi momenti della nostra vita adulta. Esistono molti tipi di dipendenza: economica, fisiologica, psicologica, emotiva, sociale, ambientale… Anche nel caso delle addiction, le dipendenze vengono ignorate se presentate come scelte fatte da individui che pensano di controllare il consumo di sostanze ritenendo di poter smettere a piacimento».

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Filosofia. Attualità di Pascal nel suo quarto centenario della nascita

LUCA ARCANGELI

A 400 anni dalla nascita è quanto mai attuale un approccio come quello di Pascal, teso alla continua definizione di un equilibrio tra pensiero analitico (esprit de geometrie) e pensiero etico-valoriale (esprit de finesse). Un contributo prezioso per chi è impegnato in un lavoro educativo, per costruire un modello di formazione integrale capace di tenere insieme in una visione sintetica la formazione tecnica, scientifica e filosofica.

«Pascal appartiene al numero di coloro che con il pensiero e la vita segnano la pienezza di questa epoca; ma mentre un Descartes – il grande contemporaneo ed avversario di Pascal – si realizza in essa compiuta – mente, Pascal la supera, oltrepassandola . Non solo perché sviluppa pensieri e assume atteggiamenti che soltanto nell’epoca nostra riveleranno il loro significato pieno, ma perché, mentre ancora l’epoca moderna è nel suo pieno rigoglio, egli assume ad essa una posizione critica. […] E mi è sembrato che nei tempi che avanzano non ci sia posto per un Descartes, mentre Pascal è vicino e ci presta il suo aiuto».

Con queste parole, Romano Guardini introduceva nel 1950 il suo scritto “La fine dell’epoca moderna”, ravvisando in Blaise Pascal il pensatore che, meglio dei padri fondatori della modernità, può oggi fornirci una bussola per attraversare il mare tempestoso del dopo moderno. Guardini rifletteva in uno scenario dove l’uso dell’atomica minacciava la fine dell’umanità e la grande domanda era come contenere e responsabilizzare l’azione umana.

Ancora oggi la domanda è attuale: oltra alla minaccia atomica, non certo risolta, si sono aggiunte emergenze ambientali , demografiche , pandemiche , tanto che la nostra attenzione è sempre più spostata su ciò che è sostenibile. Abbiamo bisogno di una nuova armonia, con la natura, con gli altri, con noi stessi . Accanto a questa ricerca di nuovo equilibrio permane paradossale la fede cieca verso un progresso tecnico celebrato come palingenesi di ogni male : finita l’epoca dello scontro tra grandi ideologie la politica è interpretata come il regno del mero scontro tra interessi , dove la tecnica deve periodicamente intervenire per sanare le soggettive passioni umane. Così nel mondo organizzativo -economico è il supposto sviluppo “tecnico ” a fornire soluzioni che, falsamente interpretate come essenzialmente “neutrali ”, non sono criticabili e vanno implementate in quanto tali.

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“Parole che allungano la vita. Pensieri per il nostro tempo” di Ivano Dionigi

IVANO DIONIGI, intervista

Prof. Ivano Dionigi, Lei è autore del libro Parole che allungano la vita. Pensieri per il nostro tempo, edito da Raffaello Cortina, che raccoglie 84 elzeviri, “bagliori”, come li definisce il card. Gianfranco Ravasi, che ha prefato il libro: qual è, se esiste, il fil rouge che li lega?
Il libro ruota attorno alla domanda di Agostino Tu quis es?, “Tu chi sei?”: una domanda personale, esistenziale, patetica. Diversa dalla domanda di Seneca Quid est homo?, “Cos’è l’uomo?”: domanda generale, indeterminata, anonima, propria dei filosofi. Questo lo scopo, tanto ambizioso quanto realistico, del libro che tiene insieme pensieri che si snodano come tappe e soste lungo un viaggio: il viaggio tra passato e presente, tra antichi e moderni, tra il fuori e il dentro di noi. Il punto di partenza è occasionale: una citazione, un episodio di cronaca, l’incontro con una persona, un dibattito su politica, scuola, lavoro, l’avvento di una tragedia improvvisa.

Il tutto sotteso dalla cura della parola: parola che, oggi più che mai tradíta e sfigurata, implora la riscoperta del proprio significato e la restituzione del proprio volto.

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Filosofia. Jacques Maritain. 50 anni dalla morte

GIANCARLO GALEAZZI

L’ideale supremo cui deve tendere l’opera politica e sociale dell’umanità è l’inaugurazione di una città fraterna, la quale non comporta la speranza che tutti gli uomini saranno un giorno perfetti sulla terra e si ameranno fraternamente, sibbene la speranza che lo stato esistenziale della vita umana e le strutture della civiltà si avvicineranno sempre più alla perfezione, la cui misura è la giustizia e l’amicizia. ” (“Per la giustizia)

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VITA E OPERE

La vita di Jacques Maritain (nato a Parigi nel 1882, morto a Tolosa nel 1973) è suddivisibile in quattro periodi. Nel periodo giovanile, tra il 1900 e il 1906, si collocano alcuni incontri fondamentali: oltre che con Raissa Oumancçoff (Rostov, 1883 – Parigi, 1960), che divenne sua moglie, con Péguy, Bergson, Bloy, che influì sulla conversione dei Maritain avvenuta nel 1905. Nel secondo periodo, che va dal 1905 al 1930, Maritain visse in Francia (salvo il biennio degli studi di biologia a Heidelberg presso H. Dreisch) e contribuì alla rinascita del tomismo, pubblicando nel 1914 la sua prima opera su “La filosofia bergsoniana” e nel 1922 il volume intitolato “Antimoderno”, e creando, nello stesso anno, i cosiddetti Circoli tomistici. Dal 1914 è professore di storia della filosofia moderna all’Institut Catholique di Parigi. Dal 1923 a Meudon la casa dei Maritain diventa luogo di incontri culturali di filosofi, teologi, scrittori, poeti, artisti. Prosegue la sua attività di professore (dal 1928 insegna logica e cosmologia) e di conferenziere in Francia e in vari paesi europei e americani.

Nel 1926 avviene il distacco dall’ “Action Française”, movimento di destra, per il quale aveva simpatizzato prima della condanna di Pio XI. Dal 1930 al 1960 si colloca un nuovo periodo, che è avviato dallo scritto “Religione e cultura”. Nel 1932 pubblica il suo capolavoro, “Distinguere per unire (o i gradi del sapere)”, e nel 1936 l’opera sua più famosa, “Umanesimo integrale”, che susciterà intorno a Maritain vivaci polemiche. Tra il ’35 e il ’37 prende posizione contro l’invasione dell’Etiopia, il bombardamento di Guernica, la guerra di Spagna. A causa del nazismo i Maritain si trasferiscono negli Stati Uniti (1940-44) e a New York Jacques insegna nelle università di Princeton e della Columbia, e tiene conferenze in numerose città americane. È anche tra gli animatori della resistenza francese.

Nel 1942 pubblica ” I diritti dell’uomo e la legge naturale”, l’anno successivo “L’educazione al bivio”, e nel 1944 il volume di metafìsica e morale significativamente intitolato “Da Bergson a Tommaso d’Aquino”. Dal 1944 al 1948 è a Roma quale ambasciatore di Francia presso la Santa Sede. In questo periodo pubblica due sintetiche ma importanti opere: il “Breve trattato dell’esistenza e dell’esistente” e “La persona e il bene Comune” (1947). Dal 1948 al I960 i Maritain risiedono nuovamente negli USA, e a Princeton Jacques insegna filosofia morale. Importante anche il suo contributo in tema di diritti umani e di pace. Nel 1951 pubblica il suo capolavoro di filosofia politica, “L’uomo e lo stato”; nel 1953 il suo testo base di estetica, “L’intuizione creativa nell’arte e nella poesia”; nel 1957 le lezioni “Per una filosofia della storia”; nel 1959 la sua opera pedagogica completa, “Per una filosofia dell’educazione”, e nel 1960 l’esame storico di “Filosofia morale”. Nel 1960, durante uno dei periodici rientri in Francia, Raissa muore a Parigi.

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