Archivi tag: Fascismo

Storia politica. L’assassinio di Matteotti. Boom editoriale

FABIO MARTINI

È un paradosso che dura da cento anni. Giacomo Matteotti è personaggio celebrato come pochi altri e al tempo stesso quasi sconosciuto nella sua essenza: umana e politica. Ma l’insolito destino che sinora ha circondato la figura del martire socialista sta per essere “riscattato”: nel prossimo mese, ai libri già usciti, se ne aggiungeranno altri dieci. Di alcuni si conosce il titolo, di altri si sa poco, altri stanno avanzando a luci spente. Sul numero finale di opere dedicate a Matteotti meglio usare il condizionale, ma una certezza c’è già: negli anniversari del passato mai erano stati scritti, in una volta sola, così tanti libri come quelli in uscita.

Un boom editoriale che ha diverse ragioni. Una contingente: il numero “tondo” dell’anniversario, poiché Giacomo Matteotti venne aggredito e assassinato dai sicari di Mussolini il 10 giugno del 1924, cento anni fa. E il centenario fa la differenza persino in una stagione nella quale si vive retoricamente qualsiasi ricorrenza: oramai le stesse iperboli gratificano il cantante simpatico e il Premio Nobel che ha cambiato i destini del mondo. Poi, certo, pesa la “ri-scoperta” di un personaggio che nel secondo dopoguerra ha ottenuto l’intestazione di 3992 strade ma sul quale ha gravato una sordina quasi involontaria: Matteotti, nel momento dell’agguato fatale, era segretario del Psu, la formazione di socialisti riformisti ispirati da Filippo Turati e appartiene dunque ad una tradizione, quella socialista, che nel secondo dopoguerra non è mai stata maggioritaria nella sinistra italiana.

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“La libertà aiuta, protegge. É un bene immenso, senza libertà non si vive, si vegeta”

NUTO REVELLI

Pubblichiamo il discorso che Revelli ha tenuto il 29 ottobre del 1999 all’università di Torino, quando gli è stata conferita la laurea honoris causa in Scienze della Formazione. Il testo è contenuto nel libro I conti con il nemico, Aragno.

La laurea Honoris causa che questa prestigiosa Università, e in particolare la Facoltà di Scienze della Formazione mi hanno conferito, mi inorgoglisce perché premia il mio impegno di cultore della ricerca, di cultore delle “fonti orali”. Ma soprattutto mi intimidisce perché la maggior parte del merito delle mie indagini spetta agli autori delle storie di vita che ho raccolto, spetta ai protagonisti del mio “mondo dei vinti”. È in questo senso che ho deciso di dedicare il mio intervento alla mia ignoranza e al prezzo per guarirne. Avevo vent’anni nel luglio del 1939, quando conseguii presso l’Istituto Tecnico di Cuneo il diploma di geometra. La guerra era alle porte, era sul punto di esplodere. Non per niente domandai subito di venire ammesso in un’Accademia militare – quella di Modena – per imparare quel mestiere. Altro che il geometra…Trascorsi due anni a Modena, in quella scuola severa come un seminario. Poi, con il grado di sottotenente venni assegnato al 2°Reggimento alpini, della Divisione “Cuneense”, la cui sede era a Cuneo, e che era appena rientrato dall’Albania. Erano stanchi i miei alpini, dopo le esperienze non certo esaltanti del fronte occidentale e del fronte greco-albanese. Diventarono subito i miei “maestri”.

Io dialogavo con loro, li ascoltavo con grande interesse. Mi intimidivano. Erano disincantati, severi nei giudizi: mai trionfalisti, mai retorici. Mi aiutavano a capire, a crescere. Avevano la famiglia, avevano la casa al centro di tutto. Il loro unico sogno era una “licenza agricola”.

Nel luglio del 1942, con il 5°Reggimento alpini della Divisione “Tridentina”, venni inviato sul fronte russo.

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Il fascismo multiforme

LUCIANO CANFORA

Non fu fascismo unicamente quello «totalitario», che alla fine del 1926 (leggi eccezionali), e soprattutto a partire dal plebiscito del 1929, fino al luglio del 1943, dunque per oltre un quindicennio, esercitò un potere dittatoriale, sorretto — nel decennio 1928-1938 — da un sempre più largo consenso. Non furono, come si sa, le leggi razziali (settembre 1938) a scalfire il consenso, quantunque già rivelassero aspetti che, nel tempo successivo, produssero rigetto.

Fu l’avventata, di fatto irresponsabile decisione di entrare in guerra (giugno 1940) e la condotta presto fallimentare di essa ad avviare un processo di sgretolamento, via via più rapido, del consenso e del regime. Fascismo fu, a pieno titolo, anche il periodo precedente, che si sviluppò in varie fasi, ciascuna con caratteri propri. Fu fascismo, con pretese anticapitalistiche impastate con pulsioni nazionalistiche, quello «diciannovista». Il programma dei «fasci italiani di combattimento» (giugno 1919) richiedeva, tra l’altro, una legge per il «salario minimo», «l’affidamento alle organizzazioni proletarie degne moralmente e tecnicamente della gestione delle industrie o servizi pubblici», «assicurazione su invalidità e vecchiaia», «imposta straordinaria sul capitale, a carattere progressivo» etc.

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“La libertà é fragile”

CARLO GINZBURG

Con la lectio magistralis La libertà è fragile, Carlo Ginzburg chiude questa sera ad Asti la XX edizione di Passepartout, festival culturale organizzato della Biblioteca Astense. Lo storico analizza i meccanismi alla base dei regimi autoritari novecenteschi. E sottolinea: l’Occidente è ancora fragile.

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Il mio intervento partirà da un libro che s’intitola Fragilité de la Liberté et Séduction des Dictatures (Fragilità della libertà e seduzione delle dittature). Purtroppo non ricordo quando e dove me lo sono trovato davanti; ricordo però che decisi di comprarlo in un batter d’occhio. Ad attrarmi non era stato il nome dell’autore (Wladimir Drabovitch), che mi era sconosciuto, bensì il titolo, la data – 1934 – e il nome dell’autore della prefazione, Pierre Janet. Che uno psicologo come Janet, famoso per le ricerche sul subconscio, avesse accettato di presentare, un anno dopo l’ascesa di Hitler, un libro sulla fragilità della libertà e la seduzione delle dittature, mi sembrò sorprendente: un’occasione che non potevo farmi scappare.

Mi rendo conto che il mio intervento, innescato dal libro di Drabovitch, arriva con un anno di ritardo. Il tema dell’edizione 2022 del Festival Passepartout – “Fragile Occidente” – sarebbe stato più appropriato. Ma purtroppo la fragilità dell’Occidente e la fragilità della libertà sono temi che rimangono tuttora (e forse più che mai) attuali.

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Quell’uomo nero che vive in noi

MASSIMO RECALCATI

Un grande filosofo come Gilles Deleuze riteneva che il presupposto di fondo della lotta antifascista avesse come prima e imprescindibile condizione la lotta contro il fascista che ognuno di noi porta dentro di sé. L’intolleranza per la differenza, la convinzione dogmatica di detenere una verità assoluta, la giustificazione politica della violenza, l’odio e lo scherno, l’approvazione della censura e l’interdizione della libertà di parola per chi diverge dalla nostra concezione del mondo, un complesso di superiorità inguaribile, la rappresentazione della Destra come culturalmente indegna, il sarcasmo verso la maggioranza quando il suo orientamento non coincide con i nostri desideri, la tendenza a convertire la critica in insulto, sono in se stesse tentazioni fasciste e autoritarie che hanno paradossalmente trovato diritto di cittadinanza anche nella cultura di gruppo dell’antifascismo. Lo scrivo con amarezza rileggendo oggi l’antifascismo militante dei movimenti della fine degli anni Settanta ai quali partecipai con grande entusiasmo giovanile.

I miei cattivi maestri di allora non si rendevamo conto che la militanza antifascista che esaltavamo non era, in realtà, altro che il rovesciamento speculare del mostro velenoso che intendevamo combattere. Se non fu quella cultura extraparlamentare ad armare la mano dei terroristi rossi, è certo che per molti dei miei compagni di allora quella violenza cieca era ampiamente giustificata dalla violenza dello Stato. L’assioma ideologico escludeva ogni forma di dubbio: se il cuore dello Stato era un cuore fascista bisognava colpirlo senza indugi. È ovvio che l’azione armata della resistenza partigiana fu tutt’altra cosa. Necessaria e legittima per contrastare la barbarie nazifascista. Come è altrettanto ovvio che i principi della nostra Costituzione nati da quella lotta devono essere sempre difesi con decisione.

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Storia. A cento anni dalla marcia sua Roma

RENATO MORO

Un anniversario che la Società italiana per lo studio della storia contemporanea non poteva certo trascurare; un’occasione per approfondire il tema dei condizionamenti che il Ventennio fascista ha esercitato nel dopoguerra

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Cade quest’anno la ricorrenza del centesimo anniversario dell’evento che diede origine al regime fascista: l’associazione che riunisce gli storici delle società contemporanee, la Sissco, non poteva, naturalmente, trascurarlo. Costituendo ormai, però, gli studi sulle origini e lo sviluppo del fascismo e sulla vita degli italiani nel Ventennio, così come sull’antifascismo, un patrimonio ricchissimo, la Sissco, nel suo congresso annuale (Campus universitario di Matera, 14-16 settembre), ha deciso di concentrarsi su un aspetto diverso ma non meno decisivo: quello dei condizionamenti che il Ventennio fascista ha esercitato sulla società del dopoguerra.

Partiamo dalla più evidente eredità del fascismo, quella monumentale. Già essa mostra le contraddizioni e le difficoltà che gli italiani hanno avuto nel maneggiare il loro passato totalitario. Il Foro Italico e l’Eur, a Roma, ne conservano tracce ingombranti: un colossale obelisco di marmo dedicato a «Mussolini Dux», pavimentazioni con fasci littori, aquile, gigantesche “M” e citazioni mussoliniane, blocchi di marmo che narrano la storia della rivoluzione fascista, enormi bassorilievi con Mussolini a cavallo. Tutto è ancora lì. Nulla è stato abbattuto o cancellato, nessuna targa o cartello segnala che il Foro Italico era originariamente il Foro Mussolini, o che il quartiere dell’Esposizione Universale Romana 1942 avrebbe dovuto rappresentare la nuova «città modello» del regime. La scelta è stata quella di lasciare le cose com’erano; qualche volta, di emendarle, qualche volta di aggiungervi un elemento equilibratore. Nel 1960, ad esempio, in occasione delle Olimpiadi romane, venne cancellata la formula del giuramento fascista che si trovava nel piazzale antistante allo Stadio Olimpico, nonché la scritta che ricordava l’assedio economico di cinquantadue nazioni contro l’Italia. Nei blocchi di marmo che il regime aveva lasciato non scritti vennero aggiunti i riferimenti alla fine del regime, alla proclamazione della Repubblica, all’entrata in vigore della Costituzione. Anche la statua di un atleta che faceva il saluto fascista e che si intitolava Il genio del fascismo, presente sul fianco del Palazzo degli Uffici all’Eur, venne abilmente trasformata, con l’aggiunta di strisce alle mani e ai polsi, in un lottatore esultante per la propria vittoria, e ricevette il titolo, molto meno compromettente, di Il genio dello sport.

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Nichilismo e fede

MASSIMO RECALCATI

La libertà non è solo possibilità di espressione, alleggerimento della vita da vincoli oscurantisti, emancipazione dell’uomo dal suo stato di minorità, come Kant aveva classicamente definito l’illuminismo.

La libertà è anche una esperienza di vertigine e di solitudine che comporta il rischio di vivere senza rifugi, senza garanzie ultime, senza certezze imperiture e fuori discussione. Lo stesso Nietzsche, che fu uno dei maggiori sostenitori della libertà del soggetto di fronte a ogni verità che pretende di porsi come assoluta, insisteva costantemente nel ricordare che la libertà suscita angoscia, spaesamento, che il navigare in mare aperto può generare una seduttiva nostalgia per la terra ferma. È in questa luce che la psicoanalisi ha interpretato la psicologia delle masse dei grandi sistemi totalitari del Novecento. Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921) di Freud, Psicologia di massa del fascismo (1933) di Reich e Fuga dalla libertà (1941) di Fromm costituiscono una sorta di fondamentale trilogia sul fenomeno sociale del fanatismo di massa e dei suoi processi identificatori che hanno costituito il cemento psicologico di tutti i totalitarismi novecenteschi.

Una tesi generale ritorna in questi tre testi: non è vero che gli esseri umani amano senza ambivalenze la loro libertà; essi preferiscono anche rinunciarvi in cambio della tutela autoritaria della loro vita. Se la libertà comporta sempre la possibilità della crisi, dell’incertezza, del dubbio, del disorientamento, è meglio fuggire da essa per ricercare in un Altro assoluto una certezza granitica e inamovibile sul senso della nostra presenza al mondo e del nostro destino. Questo ritratto della psicologia delle masse sembra aver fatto — almeno in Occidente — il suo tempo.

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Simone Weil, la coscienza di essere “capro espiatorio”

Massimo Novelli

Pubblicate le lettere della filosofa, operaia e insegnante alle sue allieve durante il nazismo: “È l’assenza di pensiero libero che rende possibile il fascismo”

Basterebbe il frammento della lettera inviata da Tolosa all’ex allieva Huguette Baur (vedi sotto), nel settembre 1940, per testimoniare quanto Albert Camus avesse ragione nell’affermare di non poter immaginare una rinascita dell’Europa senza il pensiero di Simone Weil, il “solo grande spirito del nostro tempo”. Non a caso l’autore di L’uomo in rivolta si occupò di far conoscere gli scritti di una donna che ebbe un breve ma eccezionale cammino, che la portò dalle idee anarchiche e dal comunismo eretico alla fede e a Dio. Una donna straordinaria, la Weil, che fu anche insegnante e operaia, combattente nella guerra di Spagna e resistente della Francia Libera, non cessando mai di stare con gli oppressi.

L’importanza della lettera è sottolineata da Maria Concetta Sala, la curatrice dell’epistolario della filosofa, scrittrice e mistica francese Piccola cara… Lettere alle allieve, appena pubblicato da Marietti 1820 (pagg. 94, euro 17). Scrive che “costretta dal gioco delle forze della ‘meccanica umana’ e dalle circostanze storiche a essere inclusa nella ‘categoria’ degli Ebrei, pur non sentendosi ebrea, si assunse per vocazione personale il peso della croce che tale condizione comportava. Quanto a riconoscere la ‘necessità’ di un ‘capro espiatorio’ nel parossismo della violenza all’interno del sociale, dove sovrana è la forza, occorre un coraggio soprannaturale per fissare una simile verità, quando si fa parte della schiera delle vittime da immolare”. Era quel dovere umano verso gli altri, quel pensiero libero, che le fecero scrivere che “là dove le opinioni irragionevoli prendono il posto delle idee, la forza può tutto. È per esempio molto ingiusto dire che il fascismo annienta il pensiero libero; in realtà è l’assenza di pensiero libero che rende possibile l’imposizione con la forza di dottrine ufficiali del tutto sprovviste di significato”.

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Auschwitz. Orrido simbolo degli uomini contro l’umanità

SERGIO MATTARELLA, Presidente Repubblica Italiana

(omissis). Sono passati vent’anni da quella legge che ha istituito il Giorno della Memoria, dedicato al ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti. E, tutte le volte, ci accostiamo al tema della Memoria con commozione e turbamento; e sempre pervasi da inquietudine, dubbi e interrogativi irrisolti.

Perché Auschwitz – che simboleggia e riassume tutto l’orrore e la lucida follia del totalitarismo razzista – racchiude in sé i termini di un tragico paradosso. Si tratta, infatti, della costruzione più disumana mai concepita dall’uomo. Uomini contro l’umanità. Una spaventosa fabbrica di morte. Il non luogo, l’inaudito, il mai visto, l’inimmaginabile. Sono questi i termini ricorrenti con cui i sopravvissuti hanno descritto il loro tremendo passaggio in quei luoghi di violenza e di abiezione. Lo abbiamo ascoltato poc’anzi ancora dalle parole di Sami Modiano. Un unicum, nella storia dell’umanità, che pur è costellata purtroppo di stragi, genocidi, guerre e crudeltà. Una mostruosa costruzione, realizzata nel cuore della civile ed evoluta Europa. In un secolo che pure si era aperto con la speranza nel progresso, nella pace e nella giustizia sociale e con la fiducia nella scienza, nella tecnica e nelle istituzioni della democrazia.

I totalitarismi della prima metà del Novecento – e le ideologie che li hanno ispirati – hanno arrestato la ruota dello sviluppo della civiltà, precipitando larga parte del mondo nella notte della ragione, nel buio fitto della barbarie, in una dimensione di terrore e di sangue.

Ricordare e far ricordare a tutti il sacrificio di milioni di vittime innocenti – ebrei in maggior parte, ma anche rom e sinti, omosessuali, oppositori politici, disabili – esprime dunque un dovere di umanità e di civiltà, che facciamo nostro ogni volta con dolorosa partecipazione. Ma faremmo un’offesa grave a quegli uomini, a quelle donne, a quei bambini mandati a morire nelle camere a gas, se considerassimo quella infausta stagione come un accidente della storia, da mettere tra parentesi. Se, insomma, rinchiudessimo soltanto nella memoria quei tragici accadimenti, chiudendo gli occhi sulle origini che hanno avuto e sulle loro dinamiche.

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