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Intelligenza Artificiale (AI). Come proteggersi dal suo potere distorsivo e manipolatorio?

MARCO RAMILLI, intervistato da FRACESCO ZANOTTI

Un allert, una specie di etichetta. Per distinguere le immagini reali da quelle create con l’intelligenza artificiale. A questo sta lavorando Marco Ramilli, fondatore della start up Yoroi, azienda leader nel campo della cybersecurity. Ramilli sta mettendo a punto un sistema capace di fornire il grado di attendibilità di una fotografia, per fronteggiare il proliferare di fake news. Questo nuovo progetto, «non per farci un business — assicura — ma per realizzare un mezzo da fornire a giornali e insegnanti», attiva una sorta di avvertimento: davanti a un’immagine (per il momento il campo di ricerca è limitato al settore foto per essere poi ampliato a testi, video e audio) il supporto digitale consente di sapere con quale percentuale può essere vera o falsa. O meglio: se realizzata dal vivo o grazie all’intelligenza artificiale.

Ramilli, parliamo delle implicazioni dell’intelligenza artificiale (IA). Può interferire anche in occasione di consultazioni elettorali?

L’IA può giocare un ruolo cruciale in caso di elezioni. Potrebbe realizzare una manipolazione di massa, magari usando social network o canali ad hoc con informazioni che sembrano vere, ma che non lo sono. Questo si può realizzare attraverso immagini che possono trarre in inganno. Non sapere se quello che si guarda o si legge è creato in maniera artificiale può manipolare la percezione della realtà in tanti. In letteratura ci sono casi importanti su elezioni passate. All’epoca non si agiva attraverso l’IA, ma con interventi specifici nei social media. Oggi questa possibilità è ancora più ampia. Ecco perché ritengo sia rilevante sapere se quanto vediamo e leggiamo sia frutto di IA o del lavoro umano. Da qui l’idea di creare un allert.

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Raccontare la vita: la proliferazione delle narrazioni sui social media

NICOLA LA SALA

Il racconto fa parte dell’uomo perché narrare significa oggettivare l’esistenza, i sentimenti che in essa emergono, le emozioni che suscita attraverso l’incessante scorrere degli eventi e delle storie. Questa tensione narrativa sembra oggi rafforzarsi, non sempre con esiti positivi, grazie anche alla diffusione dei social.

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Nell’ultimo anno e mezzo, caratterizzato dall’emergenza sanitaria causata dalla pandemia da Covid-19, si è amplificato il già massiccio utilizzo di strumenti e ambienti digitali nella comunicazione tra le persone, ma soprattutto si è vista emergere una diffusione esponenziale di storie e racconti su pagine e profili social, che sta contribuendo a costruire una sorta di narrazione universale in cui ognuno rappresenta se stesso e i cambiamenti del proprio vivere, ma allo stesso tempo descrive i tratti culturali di un mondo globale nel quale siamo sempre di più tutti connessi.

È importante allora chiedersi perché le persone decidono di utilizzare le nuove tecnologie comunicative per soddisfare questa tensione innata a raccontare e raccontarsi.

Una prima motivazione potrebbe essere ritrovata nel desiderio di superare la condizione di solitudine dell’uomo contemporaneo. Una crescente solitudine che appartiene al nostro tempo e che attanaglia gli individui intrappolati in uno scenario di desertificazione sociale, dove si assiste continuamente a tentativi subdoli e pervasivi di recintare qualsiasi cosa.

Eppure, nonostante questa tensione incessante a innalzare confini e favorire separazioni e divisioni, gli spazi della rete e dei social media si sono riempiti di persone che cercano comunque di incontrare l’altro, di rinsaldare legami esistenti e/o crearne di nuovi. Accanto a questo desiderio di relazione, il binomio narrazione – social media può trovare un suo fondamento anche nella cultura del narcisismo, che mette al centro l’individuo e la condivisione indiscriminata di ogni aspetto della propria esistenza.

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