Archivi tag: Democrazia

Ripensare e vivere la democrazia

MARIO TOSO

  1. La crisi della democrazia contemporanea

Si tratta di una crisi profonda relativa al deficit del rendimento del sistema democratico, ad una rappresentanza indebolita a causa della crescente separazione tra élite e società civile, a istituzioni pubbliche che non lavorano a lunga scadenza, ma obbediscono a criteri di mero successo elettorale. I partiti si presentano non come canali di comunicazione tra società civile e istituzioni pubbliche a causa delle liste bloccate.[3] In tal modo, non consentono un adeguato coinvolgimento popolare nei processi decisionali. Favoriscono l’astensionismo, la disaffezione nei confronti della politica[4].

La crisi maggiormente preoccupante, però, è la crisi etico-culturale che sta alla base della democrazia. Sotto i colpi di un individualismo arbitrario e di una sempre più diffusa dittatura del relativismo[5] si pongono in gravi difficoltà lo Stato di diritto, lo Stato di diritto sociale, basi della democrazia sostanziale contemporanea. Con cittadini prevalentemente volti a realizzare una libertà individualistica, libertaria, utilitaria, consumistica, diventa sempre meno possibile una democrazia sostanziale, partecipativa, solidale, deliberativa, inclusiva. La democrazia come è stata delineata nella Costituzione italiana, ma non solo, presuppone un personalismo comunitario, incentrato attorno ad un asse costituito dalle persone libere e responsabili, intrinsecamente sociali, aperte al Trascendente.

Oggi, dunque, occorre riappropriarsi della democrazia[6] risemantizzandola, rafforzandola sulle basi di un umanesimo trascendente. La partecipazione è da coltivare come primo indicatore della salute della democrazia, come via che consente di perseguire la fioritura dell’umano.

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Libertà e potere. La crisi della democrazia contemporanea

MARIO TOSO

Premessa

In un contesto di terza guerra mondiale, in cui viene a prospettarsi una nuova configurazione dell’Occidente europeo rispetto alle grandi potenze mondiali emergenti, sembra essere messa in crisi la «promessa» fondamentale che la modernità aveva immesso nel genoma della democrazia: l’emancipazione della soggettività e la liberazione dalle catene del dominio eteronomo per essere realmente autonomi e, per questo stesso, più liberi.

Ma se alla fine del secolo scorso la democrazia sembrava poter affermarsi in tutto il mondo, all’inizio di questo secolo appare ovunque in crisi. La sua promessa di libertà per tutti i popoli viene indebolita sia sul piano del funzionamento delle istituzioni democratiche (istituzioni di governo ai diversi livelli – da quello locale a quello internazionale –, parlamenti, partiti), sia sul piano del coinvolgimento popolare nei processi decisionali ed elettorali (si pensi all’astensionismo e alla disaffezione), sia sul piano della sua anima etico-culturale. Nonostante l’accrescimento della comunicazione, prevalgono la frammentazione sociale, l’individualismo utilitarista, che lasciano poco spazio per pensarne il futuro. Con cittadini e rappresentanti intrappolati in forme populiste ed illiberali di democrazia, diventa sempre più difficile realizzare la democrazia sostanziale, partecipativa, solidale, deliberativa, inclusiva. Contrariamente a quanto si pensa comunemente, non giova rispetto al suddetto ideale di democrazia il concetto di un’autorità politica intesa prevalentemente come potere, ossia come capacità di imporre e di farsi valere sui popoli, anziché come capacità di far crescere e di far fiorire i cittadini secondo la loro dignità umana, in tutta la sua pienezza.

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Rigenerare la democrazia

MARIO TOSO

Riportiamo di seguito una riflessione del Vescovo di Faenza, Mario Toso, rivolta ad un gruppo di giovani della sua diocesi come preparazione alla 50.a edizione della Settimana Sociale dei Cattolici che si svolgerà a Trieste dal 3 al 7 luglio 2024. Il testo integrale è riportato sul sito diocesano. Altri testi di approfondimento di aspetti attinenti lo stesso argomento son reperibili sul medesimo sito

  1. Cattolici e democrazia: importanti questioni aperte

I cattolici sono chiamati a dare il loro apporto peculiare in vista della sua rigenerazione rispetto alla democrazia odierna, sia a livello nazionale sia a livello europeo. L’apporto dei cattolici, però, appare condizionato negativamente da più fattori che ne limitano l’efficacia. Tra le cause che lo indeboliscono vanno senz’altro annoverate: una crescente separazione tra fede – fonte di un nuovo pensiero, di una nuova cultura e di un umanesimo trascendente – e vita, che provoca una pericolosa frammentazione identitaria, tale da non consentire di partecipare al dialogo pubblico alla pari con altri soggetti che, al contrario, non hanno timore di promuovere la propria identità;[1] la conseguente perdita dell’ispirazione cristiana, la quale non offre al cattolico che interviene nella discussione pubblica una  ragione irrazionale, ma sovrarazionale, ossia capace di confrontarsi con altri sulla base di contenuti razionali o di contenuti che non contraddicono la ragione che funziona correttamente, ma semmai la arricchiscono; l’ancoramento ad una deleteria teoria della diaspora, che non tiene conto o sottovaluta l’importanza delle regole procedurali della democrazia, in particolare quella relativa al principio della maggioranza. Chi non tiene in considerazione la procedura della maggioranza mostra di ignorare un importante processo della democrazia – l’approvazione delle leggi avviene sulla base della maggioranza – che può far scivolare i cattolici verso una forma di analfabetismo politico ma anche di irrilevanza.[2]

Sulle cause che portano ad indebolire l’apporto dei cattolici nella necessaria rigenerazione della democrazia si ritornerà nel corso delle seguenti riflessioni.

  1. Documento preparatorio della 50.a Settimana sociale dei cattolici in Italia[3]

Di fronte al compito di rigenerare la democrazia odierna potrebbe assalirci sin dall’inizio lo scoramento. Perché? Perché la democrazia è fortemente in crisi.[4] Colin Crouch l’ha definita post-democrazia, ovvero democrazia senza cittadini.

Si tratta di una crisi profonda che non riguarda solo il piano delle istituzioni: i partiti, ad es., in Italia si presentano con liste bloccate.[5] La crisi della democrazia si manifesta anche dal punto di vista del coinvolgimento popolare nei processi decisionali. Si pensi all’astensionismo, alla disaffezione nei confronti della politica[6].

La crisi maggiormente preoccupante, però, è la crisi etico-culturale che sta alla base della democrazia: inquietano la frammentazione sociale e l’individualismo crescente, che lasciano poco spazio per pensarne il futuro. Sotto i colpi di un individualismo arbitrario e di una sempre più diffusa dittatura del relativismo[7] si pone in gravi difficoltà lo Stato di diritto, lo Stato di diritto sociale, basi della democrazia sostanziale contemporanea. Con cittadini prevalentemente volti a realizzare una libertà individualistica, libertaria, utilitaria, consumistica, diventa sempre meno possibile una democrazia sostanziale, partecipativa, solidale, deliberativa, inclusiva. La democrazia come è stata delineata nella Costituzione italiana, ma non solo, presuppone un personalismo comunitario, incentrato attorno ad un asse costituito dalle persone libere e responsabili, intrinsecamente sociali, aperte al Trascendente.

Oggi, dunque, occorre riappropriarsi della democrazia[8] risemantizzandola, rafforzandola sulle basi di un umanesimo trascendente. E la partecipazione è da coltivare come primo indicatore della salute della democrazia.

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La sfida. Le ragioni e il metodo della democrazia nel confronto con le autocrazie

MAURO MAGATTI

Negli anni della globalizzazione l’Occidente ha esportato diversi elementi del proprio modello di sviluppo: la scienza, la tecnologia, l’economia basata sul circuito produzione-consumo. L’ipotesi era che tutto ciò avrebbe portato all’adozione della democrazia come modello politico di riferimento. Cosa che, però, non è avvenuta.

Così, oggi, ci troviamo in un mondo in cui si delinea un nuovo confronto tra democrazie e autocrazie. Modelli diversi che perseguono una politica di potenza che non tocca più solo gli scambi commerciali e la disponibilità di energia e materie prime, ma anche il dominio dello spazio, l’intelligenza artificiale e la stessa vita umana. Una nuova fase storica che può volgere verso il meglio o verso il peggio i destini dell’umanità.

Si deve purtroppo constatare che, da una parte e dall’altra, sono molti quelli che adottano uno schema di pensiero rigido: cristallizzando la contrapposizione, rischia di provocare grandi disastri.

Per evitare di finire nel circolo vizioso della guerra – il conflitto, per dimensioni e portata, non potrebbe che avere effetti devastanti su scala planetaria – occorre pensare e agire diversamente. E per noi occidentali la sfida è dimostrare che le ragioni e il metodo della democrazia (dialogo, liberta, rispetto, diversità) possono costruire una bussola per orientare anche i rapporti nel contesto globale.

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Giacomo Matteotti, insigne esempio di coraggio e dignità

ELENA CATTANEO e LILIANA SEGRE

«Ha chiesto di parlare l’onorevole Matteotti. Ne ha facoltà». Era il pomeriggio del 30 maggio di cento anni fa quando Giacomo Matteotti prese la parola per l’ultima volta dagli scranni della Camera per pronunciare quello che è ricordato come «il discorso della morte».

Con un coraggio che rasentò, anzi superò, la temerarietà, infatti, Matteotti denunciò gli abusi e le violenze con cui il fascismo aveva vinto le elezioni politiche del 6 aprile 1924, tenutesi con la famigerata Legge Acerbo.

Lo stenografico di quella seduta va letto e conosciuto da tutti, a partire dai giovani nelle scuole. Non ha nulla di polveroso, di lontano da noi. Le parole, gli argomenti basati su fatti precisi che il deputato socialista offrì all’aula raccontano come si consumò l’aggressione brutale e sistematica al processo elettorale di una democrazia liberale. I fatti narrati, anche quelli più minuti connessi agli ostacoli alla raccolta firme, alla presentazione delle liste, o quelli legati alla impossibilità dei rappresentanti di lista delle opposizioni di presenziare ai seggi, testimoniano l’esercizio della violenza politica diffusa nel Paese, che ebbe l’effetto di ridurre la volontà popolare a un guscio vuoto a uso e consumo del potere.

Lo spartito di lordure denunciato allora da Matteotti è oggi il presente di tanti Paesi e luoghi, anche a noi prossimi, dove il voto — né libero, né segreto — non è che il simulacro di quel che consideriamo democrazia.

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Filosofia. Habermas e la ricerca della democrazia reale

DAVIDE GIANLUCA BIANCHI

Il grande filosofo tedesco, a 95 anni, pubblica un saggio dove torna alle origini del suo pensiero sull’agorà politica come spazio dell’«agire comunicativo»

Esce in questi giorni in Italia un piccolo volume firmato da Jürgen Habermas – Nuovo mutamento della sfera pubblica e politica deliberativa (Cortina editore; pagine 120, euro 14) – mediante il quale il filosofo tedesco, alla soglia dei 95 anni, ritorna agli argomenti della sua tesi di dottorato, ultimata nel 1962, che hanno ispirato tutto il suo lavoro successivo, e che oggi sono di grande attualità in ragione del protagonismo dei social media nella comunicazione di massa.

Come è noto, Habermas si è formato nel clima della Scuola di Francoforte, dove aveva l’apprezzamento di Adorno soltanto e il disinteresse di Horkheimer in merito ai temi che voleva approfondire. Scelse così di rivolgersi all’Università di Marburgo per la sua abilitazione all’insegnamento, trovando la disponibilità di Wolfgang Abendroth nel sovraintendere ai suoi studi storiografici e concettuali sulla “sfera pubblica” (Öffentlichkeit in tedesco). Così come i suoi maestri, con Dialettica dell’Illuminismo (1947) avevano guardato al lato oscuro – se così vogliamo dire – dell’età dei lumi, Habermas con maggior ottimismo cercava nel razionalismo settecentesco e nella società “borghese” dell’epoca il contributo primigenio alla formazione della moderna opinione pubblica, intesa come uno spazio condiviso di discussione e formazione dei convincimenti individuali dei cittadini in una società libera e democratica.

La “sfera pubblica” di cui parla Habermas è senza dubbio una idealizzazione, che richiama alla mente un luogo aperto e partecipato, dove le idee circolano liberamente perché i cittadini animano attivamente il dibattito pubblico, in contrapposizione agli arcani imperii del potere assoluto, dove operava il principio in base al quale quanto più una questione politica era importante, quanto meno era lecito saperne. Queste nozioni sono alla base della sua maggiore opera teorica – La teoria dell’agire comunicativo, uscita in più volumi nel 1981 – che per molti aspetti prende le distanze dalle tesi fondamentali della Scuola di Francoforte: l’agire comunicativo di Habermas è volto all’intesa e si distingue dall’agire strumentale negativamente connotato di Horkheimer e Adorno; in luogo della dialettica Stato-società civile di sapore ancora marxiano, Habermas distingue fra “mondo della vita” – da cui derivano le sue aperture nei confronti della spiritualità – e “sistema” e fa propria la più recente filosofia del linguaggio dove primeggia l’etica del discorso, in cui la parola è essa stessa un’azione volitiva, che solo in democrazia ha la possibilità d’essere libera.

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“Democrazia, la sfida della fraternità”

MASSIMO BORGHESI

Francesco Occhetta, gesuita, membro dal 2007 del Collegio degli scrittori de La Civiltà Cattolica, segretario della Fondazione Fratelli tutti, è docente nella Facoltà di scienze sociali presso la Pontificia Università Gregoriana. Da anni lavora nell’ambito della formazione sociale e politica, con particolare attenzione al mondo cattolico. L’ultimo lavoro è un libro, da lui curato, con il titolo Democrazia. La sfida della fraternità (Pellegrino, 2024). Nella sua presentazione Occhetta lega il rilancio della democrazia, oggi in grave crisi nell’Occidente e nel mondo, alla riproposizione di dinamiche fraterne capaci di opporsi all’individualismo libertario ed edonistico che, da tempo, dissolve il tessuto etico e sociale dei popoli ed è causa delle reazioni populistiche che minano le relazioni interne ed esterne delle nazioni.

Il tema “fraternità” si ricollega chiaramente all’Enciclica Fratelli tutti di papa Francesco, un documento che pare uscito di scena dopo la guerra tra Russia ed Ucraina e tra Israele ed Hamas. Oggi, osserva Occhetta, “Il 70% della popolazione del pianeta vive sotto regimi autoritari. Secondo l’Istituto V-dem di Göteborg in Svezia, i Paesi con democrazie liberali, in dieci anni, sono passati da 41 nel 2010 a 32 nel 2020, rappresentando solamente il 14% della popolazione mondiale. […] I conflitti armati in corso tra Stati sono 55, di cui 8 hanno raggiunto il livello di guerra, 22 sono stati internazionalizzati (significa che lo Stato in guerra è aiutato da altri Stati). La crescita di morti nel 2022 è stata maggiore del 96% rispetto all’anno prima; l’80% sono civili, non militari, ossia persone che la guerra la subiscono”.

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La guerra e l’Europa, una politica ’sub specie aeterni’

ROBERTA DE MONTICELLI

Davvero se vogliamo la pace dobbiamo preparare la guerra, come afferma Charles Michel, presidente attuale del Consiglio europeo, a conclusione del discorso con cui prepara il vertice che dovrà tradurre lo squillo di tromba in spesa di riarmo? Davvero è più unita, questa Ue, dopo le parole di Emmanuel Macron che non esclude l’invio di truppe europee in Ucraina e dopo il triangolo di Weimar, episodi entrambi che hanno finito di sfasciarne la ragione d’esistenza – la pace – nello stridore degli interessi nazionali e soprattutto elettorali differenti, con le elezioni europee alle porte?

Molte volte mi sono chiesta che cosa ci renda ciechi alla storia presente, impedendoci di discernere i torti e le ragioni, ma anche solo la vera grandezza e la vera miseria, almeno con il grado di lucidità con cui li discerniamo nelle azioni e negli eventi del passato: lucidità relativa, comunque non comparabile alla nebbia intrisa di menzogne che circonda le azioni mentre si svolgono, i fatti mentre accadono.

Perché da sempre le civiltà implodono e le guerre accadono prima che la coscienza media, comune, ne percepisca i segni: e tanto meno li percepiamo, quante più parole evocatrici di scenari catastrofici circolano sugli organi della coscienza quotidiana, i media appunto. Dove, è vero, vige un’equiparazione fra le trombe dell’apocalisse, i risultati dei mondiali di calcio e la pubblicità delle vacanze, secondo le imperscrutabili ma democratiche leggi del giornalismo (o del nichilismo?).

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Difendere la democrazia. Lettera aperta dei vescovi tedeschi nord-orientali

Il 2024 è un anno di elezioni. Le elezioni per il Parlamento europeo, i parlamenti dei Land di Brandeburgo, Sassonia e Turingia e a livello comunale, richiedono la nostra responsabilità. Come società, stiamo affrontando sfide importanti e complesse sia a livello nazionale che europeo. Stiamo già sentendo le conseguenze di queste sfide. Per affrontarle ci è chiesto un grande impegno.

Molte persone non capiscono più le decisioni politiche. Sono insicure, arrabbiate e temono il declino sociale. Questo non deve indurci a lasciarci attirare da dichiarazioni populiste e soluzioni apparentemente semplici.

Noi vescovi osserviamo con preoccupazione questi sviluppi nel nostro Paese. I processi e le istituzioni democratiche vengono messi in discussione e sminuiti. Le posizioni populiste, estremiste di destra e antisemite, stanno diventando sempre più accettabili. La sfiducia, l’odio e l’agitazione stanno frammentando la società.

Gli orrori delle guerre mondiali e le atrocità commesse dal regime nazista ci hanno insegnato che il rispetto e la tutela dell’inviolabile dignità degli esseri umani devono essere il principio guida supremo di ogni azione dello Stato. Riteniamo che i partiti politici che mettono in discussione questo principio non possano rappresentare un’alternativa.

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Democrazia. Partecipare alla vita della comunità é un diritto di libertà prima che un dovere

EZIO MAURO

Dopo gli anni della grande recriminazione e del disincanto, con la scia di Tangentopoli che divorava le culture politiche della tradizione, ora è il tempo di chiedere alla cosiddetta società civile di fare la sua parte e di reggere il peso e l’obbligo del cambiamento. È un’inversione di prospettiva e soprattutto di responsabilità, che forse segna l’inizio della fine per la lunga stagione dell’antipolitica, redistribuendo ruoli, compiti e funzioni in attesa di capire finalmente dove siamo: nell’eterna agonia della Prima Repubblica che non riesce a finire, nell’incompiuta berlusconiana di un bipolarismo imperfetto, o nella post-democrazia di una riforma costituzionale che separerà la Repubblica dalla sua storia, rifiutando la cultura della libertà nata dalla scelta antifascista come fonte nazionale di legittimazione della democrazia ritrovata, per entrare nell’indistinto dell’Anno Zero.

Nel discorso di Capodanno il presidente Mattarella aveva tutti questi fantasmi intorno a sé mentre in piedi, con le luci natalizie sullo sfondo, si rivolgeva ai cittadini italiani cercando un punto fermo dopo l’urto congiunto delle crisi che da anni assediano il mondo, disorientando l’Occidente e le sue sicurezze egemoniche. Più di altre volte Mattarella è sembrato solo, nel suo tentativo di individuare un bandolo a cui appoggiarsi per risalire l’incertezza che domina la fase, in un Paese diviso: e tuttavia convinto che il punto di forza sia da cercare oggi nei doveri del cittadino e della comunità, chiamati a fare la loro parte dopo la lunga stagione in cui ogni colpa è stata caricata sulla società politica, anzi sulla classe dirigente in generale, e sul suo soggetto simbolico e per definizione colpevole, l’élite.

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