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Perché sono andata ad Auschwitz

BENEDETTA TOBAGI


In tempo di guerra, la memoria spesso si riduce a un’arma. Anche quella della Shoah. Cosa significa visitare i campi di sterminio a due anni dall’invasione dell’Ucraina e sei mesi dopo il 7 ottobre, mentre l’epiteto “nazista” e l’accusa di antisemitismo sono agitati come armi tattiche per stroncare qualunque dibattito, mentre si riaffacciano i più odiosi attacchi agli ebrei e le sensibilità “a corrente alternata”, chi ignora le vittime del massacro di Hamas, chi si mostra cieco alla carneficina consumata da mesi a Gaza? Possiamo coltivare una memoria che alimenti la cultura dei diritti umani e l’empatia per il dolore dell’altro, anziché ridursi a monumento retorico oppure, peggio ancora, a un credito irrisarcibile da brandire a giustificazione di nuovi orrori?

Per scoprirlo, mi sono unita a uno dei tanti viaggi della memoria organizzati da oltre un decennio dall’associazione Deina che, partendo dalla Cracovia della fabbrica di Oskar Schindler, conduce centinaia di ragazzi dai 17 ai 25 anni (ma per fortuna sono ammessi anche un po’ di adulti) in un percorsodi conoscenza che termina nell’ anus mundi del Novecento, i campi di Auschwitz e Birkenau.

L’esperienza è forte, intensamente spiazzante. La nuda potenza dei luoghi spazza via le partigianerie ottuse, l’eco delle polemiche ideologiche si spegne in fretta. Nel silenzio germogliano i dubbi, le domande senza risposta. Camminando nel ghetto della città polacca, a un tiro di schioppo dal confine ucraino, quando la guida racconta i mesi terribili del 1939 che precedettero l’aggressione nazista, i dilemmi circa le prospettive del riarmo europeo e il sostegno militare a Kiev assumono proporzioni ancora più angosciose. Deina lavora proprio in questa direzione, perché dall’incontro con l’abisso scaturisca un nuovo senso di responsabilità rispetto al presente e al futuro: Auschwitz è il momento terminale di un piano inclinato che comincia molto prima, con piccoli atti di chiusura e discriminazione, quando si smette di vedere nell’altro da noi un essere umano.

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