La Bellezza, mistero del mondo

Dialogo tra Sergio Givone, filosofo e Prorettore dell’Università di Firenze, e Davide Rondoni, scrittore, editorialista del Sole24ore e Avvenire a cura di Luca Nannipieri.

Givone, perché si ha fame di bellezza?

SERGIO GIVONE – Proviamo anzitutto a chiederci: che cos’è la bellezza? Il concetto di bellezza è molto ambiguo e una riflessione attenta su di esso non può prescindere dal fatto che noi usiamo spesso questo termine nelle più disparate occasioni. Viviamo in un mondo in cui sembra che solo ciò che è bello sia degno di esistere. Valutiamo e giudichiamo in nome della bellezza, non della bellezza di cui si ha intimamente fame, non della bellezza che è mistero del mondo, ma evidentemente di un’altra bellezza, quella bellezza che è pacifica, scontata, quella bellezza che ci autorizza a dire che solo ciò che è bello è degno di essere comprato, votato, scelto, messo nelle nostre case. L’industria ha capito bene tutto questo e infatti presenta le merci in un alone di bellezza senza il quale non sono vendibili, costruisce e rende belli e accoglienti i luoghi in cui le merci sono vendute, e la pubblicità e la presentazione delle merci passano soprattutto attraverso questo sforzo di rendere bello, di salvare solo ciò che è bello. Giudichiamo un prodotto per la cucina, un uomo politico, un libro o una vetrina secondo questa bellezza che fa da velo e che alla fine diventa un’estrema mistificazione. Infatti che cosa è accaduto? E’ accaduto che valutiamo degno di essere soltanto ciò che appare sotto questa luce. La bellezza non è se non il fatto di apparire, di essere in mostra e mostrata bene. E dunque la bellezza è diventata una decorazione, una cosa sfigurata, banale, triviale.

Alla tua domanda iniziale “perché si ha fame di bellezza?”, sono tentato di rispondere con un’altra domanda che segue questo mio pensiero: cos’è successo in questa parabola che sta sotto il nome di bellezza, dagli antichi che la cercavano fino ad oggi e a noi che la consideriamo una cosa di consumo? Cos’è accaduto? Evidentemente, in questi secoli, è successo qualcosa su cui vale la pena interrogarci. Interrogandoci proveremo a rispondere che cosa sia la bellezza e che cosa significhi avere fame di bellezza.

Comincio con una citazione e con un grandissimo poeta: Rainer Maria Rilke nella prima elegia duinese definisce il bello come nient’altro che l’inizio del terribile: “Chi se io gridassi mi udirebbe mai / dalle schiere degli angeli ed anche / se uno di loro al cuore / mi prendesse, io verrei meno per la sua più forte / presenza. Perché il bello è solo / l’inizio del tremendo, che sopportiamo appena, / e il bello lo ammiriamo così perché incurante / disdegna di distruggerci”. A nessuno di noi verrebbe in mente questa definizione di bellezza come inizio del tremendo. Cos’è il tremendo, il terribile? Ciò che scuote nel profondo, ciò che è massimamente inquietante. Per Rilke la bellezza è ciò che ci inquieta come nessuna altra cosa, ma è solo l’inizio di questo scuotimento, di questo processo, e per poter capire quello che vuole dirci pienamente il poeta, dobbiamo leggere l’elegia per intero che sta tutta nel segno dell’Angelo dell’Annunciazione.

Esiste qualcosa di più quieto e mite, di più riconciliato con se stesso, che lo stare di una fanciulla nel raccoglimento di una preghiera confidente e fiduciosa? Forse non riusciamo ad immaginare qualcosa di più perfetto, di più chiuso nella sua compiuta serenità di una fanciulla che prega. Ma quella fanciulla riceve un annuncio che la scuote nel profondo. L’Angelo dell’Annunciazione è l’angelo della bellezza che nella bellezza scuote, che apre una lacerazione, come una vetrata che si rompe. Tutto questo accade alla Madonna, ma questo accadere viene dalla bellezza conservato. In genere lo squarcio, la lacerazione ci fa sprofondare. Invece la bellezza ci salva da tutto ciò, è uno squarcio che permette di sperimentare ciò che scuote nel profondo, ma salvandoci. Esattamente quello che accade alla Madonna. Quella fanciulla è scossa nel profondo e tuttavia la sua fiducia, il suo raccoglimento e la sua confidenza nei confronti dell’Angelo che induce in lei quello scuotimento, restano tali. Dunque, secondo Rilke, e detto in altri termini, la bellezza è evento, l’annunciazione è evento, la bellezza è epifania, manifestazione eventuale, cioè qualche cosa che accade, che nasce in quel momento lì. La verità dell’evento è tutta raccolta nell’evento stesso ed io ne faccio esperienza. Questo è il mistero: non quel mistero come noi solitamente lo pensiamo, cioè come quel velo che nasconde qualcosa che appartiene alla struttura dell’essere, e che, appunto, stante questo velo, io non posso afferrare, non posso percepire, ma una volta tolto questo velo, eccolo lì il mondo completamente dispiegato; che è come dire il mistero è tolto. No… il mistero resta, anzi è stato rafforzato, rinvigorito dall’evento stesso: il fatto che sia mistero, non si lascia sprofondare nel suo non senso. Nessuno al mistero riesce a strappare la sua “misteriosità”, il suo segreto: è come una polla d’acqua che si rigenera da se stessa e continua a zampillare.

Charles Baudelaire fu il primo intellettuale che ha avuto una consapevolezza davvero profetica, anticipatoria del mondo verso il quale stavamo andando, il mondo esemplificato a suo giudizio da Parigi, capitale del XIX secolo, città che non è più città, i cui confini non sono più le mura, in cui non è più il finito la dimensione che la definisce, ma l’infinito, città metropolitana, città a perdere, città sconfinata, dove ci si perde, dove non ci si riconosce più, ecco Baudelaire dice questo: quello che una volta era l’incontro tra gli uomini, oggi è l’urto, colpirsi gli uni e gli altri senza chiedersi scusa. Il tratto specifico è l’urtarsi. Ebbene, Charles Baudelaire, che sapeva cosa fosse la secolarizzazione, la perdita del sacro, il disincanto del mondo, scrisse questi due versi che potrebbero essere integralmente rilkiani “Da dove vieni, o Bellezza, da un cielo anteriore o dall’abisso / il tuo sguardo, infernale o divino che sia, versa / mischiandoli, beneficio e delitto….”. Anche per Baudelaire la bellezza è un mistero che schiude e richiude ai nostri occhi la sua intima verità. Appunto non importa che sia infernale o divino, ma certo importa che il suo sguardo sia smisurato.

Rondoni, la bellezza scuote nel profondo dice Givone. Ma che cosa scuote dentro? Che cosa va ad accendere?

DAVIDE RONDONI – La bellezza scuote perché mette in inquietudine la tua esperienza, la chiama a sorprendersi, a turbarsi, a prendere consapevolezza della sua misura e di ciò che rompe questa misura, di ciò che la supera e la vivifica. Di fronte alla bellezza, di fronte ad una bella donna, non provi quiete o pacificazione. Piero Bigongiari, che era un uomo che aveva un ragionamento sulle cose profonde veramente soggiogante, scrisse che l’attrice Catherine Hepburne era molto amata perché incarnava un volto del nostro intimo: l’inquietudine. Scrisse proprio così: l’inquietudine. Stava parlando di un’attrice bellissima ma ne andò a cogliere esattamente qualche cosa che ci riguardava in pieno: la bellezza di quell’attrice metteva in moto non un’esperienza di pacificazione o di seraficità, ma un campo di battaglia, un’agitazione. La sua bellezza scuoteva, inquietava. Quando incontri la bellezza, questo provi: un senso di spalancamento, come una finestra che si spalanca, una dimensione dentro che si amplifica enormemente. Noi diciamo ad una donna “sei bella da morire”. Cosa vuol dire “sei bella da morire”? Cosa c’è dentro questo modo strano di dire, che può sembrare semplice o banale? C’è appunto uno sperduto indizio, un annuncio, una traccia dello sconfinato, del “tremendo” di cui ha parlato adesso Givone. La bellezza è un qualche cosa che rompe, che eccede, è un evento che eccede la misura, che offre sproporzioni rispetto a te stesso. Semplificando molto, si può dire che l’esperienza della bellezza ti spinge a non essere tiepido nei confronti dell’esistenza. Nella Bibbia è scritto che Dio vomiterà i tiepidi. Ecco, provocando la discussione, dico che la bellezza è una di quelle cose che ci permette di non essere vomitati da Dio.

Che cosa intende quando dice che la bellezza offre sproporzioni rispetto a te stesso?

DAVIDE RONDONI – Non sono un teorico o un filosofo: i filosofi come Givone chiariscono, io come poeta sono più portato a confondere, a portare quella confusione un po’ luminosa della poesia. Per questo, ti leggo una mia poesia e poi provo a rispondere a quello che mi chiedi:

Grazie a te/essere come l’albero solitario sulla linea della collina/che aperto fa vedere come gli viene alle spalle il grido del cielo/Con te amore mio/sento finalmente il canto che mi farà morire

La bellezza genera sproporzioni perché quando la incontri, sia nel volto di una bella donna sia in un affresco di Michelangelo, si sente salire una sorta di urgenza, di domanda affinché nella tua vita qualcosa cambi, qualcosa si rompa o si ridisegni in uno spazio diverso, più ampio. Ciò che chiede, ciò che evidenzia la bellezza è una parola che i mezzi di grande comunicazione e i dibattiti e i giornali hanno quasi dimenticato eppure la vita la chiede continuamente: l’infinito, l’eterno. Diciamo così: da Omero a Dante a Piero della Francesca, la bellezza delle loro opere chiede, evidenzia l’entrata dell’eterno nella storia, nella nostra storia.

Quando ci s’incanta di fronte ad una donna e si continua a dire “Come sei bella, come sei bella”, questa ripetizione è un aumento, non è una ripetizione che sminuisce. In genere in “come sei bella, come sei bella, come sei bella” o nell’invocazione di San Bernardo alla Vergine scritta da Dante nell’ultimo canto del Paradiso “in te misericordia, in te pietate, in te magnificenza, in te s’aduna….” c’è una ripetizione che è una specie di viaggio dentro qualche cosa che riconosco e che non so, che riconosco e che mi sfugge, che mi dà misura dell’eterno, dello sconfinato.

Pensa a quanto ci piace guardare l’andirivieni delle onde sulla spiaggia, queste onde piccole, che fanno un po’ di riflesso, un po’ di luce, che si infrangono e si ripetono. Perché ci piace guardare quel fenomeno lì, pieno di movimento e di ritmo? Perché è una cosa piccolissima, però al tempo stesso è attaccata ad un fenomeno immenso come il mare. E allora ci piace che ci arrivi addosso qualche cosa che al contempo è minimo, fuggitivo, ma porta con sé l’eco e la profondità di chissà quali abissi e di chissà quale orizzonte.

E’ sempre notte, sempre giorno i cancelli del mondo, il tuo volto/si aprono, non aprono/sempre notte/sempre giorno,/la vita intera come uno che ha intravisto/e sta per ricordarsi di qualcosa cuore divorante della rosa

Questa è una mia poesia nata nel sentore di questo che ho detto, ma anche Dante compie il viaggio della Commedia affinché la nostra stessa vita, oltre alla sua, sia presa da questo movimento, affinché si possa andare a trovare qualcosa per cui tutto non sia perduto.

SERGIO GIVONE – Seguendo quanto detto adesso da Rondoni e riprendendo il filo della mia riflessione che si era fermata a Rilke e alla bellezza che scuote nel profondo come l’Angelo dell’Annunciazione nei confronti della Madonna, proviamo a fare un passo ulteriore.

Qualche anno prima di Rilke, Fëdor Dostoevskij aveva detto qualcosa di ancora più intenso, di più polemico. Aveva detto che la bellezza è il campo di battaglia nel quale Dio e Satana si giocano il cuore dell’uomo. Tutti i suoi romanzi illustrano mirabilmente questa condizione, pensiamo a “L’idiota” o “I fratelli Karamàzov”: in nome di che cosa i personaggi Ivan Karamàzov, Dmijtri, il principe Myškin, Rogozin si giocano la vita? In nome di una donna, di una donna che appare ed il mondo non è più quello che era. La bellezza dunque anche qui come epifania, come evento. Il principe Myškin apre la porta e si trova di fronte la bella Nastas’ja e le dice: “Ma voi siete quella che credevo che foste”. L’ha riconosciuta senza averla mai vista prima. Questo è il mistero della bellezza e cioè che ci rende sempre più affamati di bellezza. Noi nella bellezza e soltanto nella bellezza, perché non c’è altra esperienza di questo tipo, riconosciamo ciò che non abbiamo mai riconosciuto, ciò che non conoscevamo. La vediamo, ed è proprio lei. Non quella “lei” di cui avevo una certa idea in testa e l’ho trovata corrispondente. No, il contrario: anzi, succede spesso che quella “lei”, che è proprio lei, è diversissima da come io mi immaginavo che dovesse essere, eppure è lei. Anamnesi della parola. Viene da lontano questa idea della bellezza come riconoscimento di qualcosa che è assolutamente vero, pieno di verità, e che non conoscevo, che conosco in quel momento ed è una conoscenza più forte, più attrattiva, più appagante di qualsiasi altra conoscenza. Viene addirittura da Platone. Nel Simposio, infatti, ci dice questo: la bellezza è il mistero. Ecco perché è il mistero del mondo, il mistero per cui io riconosco ciò che non conoscevo, che non sapevo che esistesse ma, nel momento in cui lo riconosco, la conoscenza è totale, piena: tanto è vero che nessuno è pieno di sapere come l’innamorato. Tu hai un bel dire a lui… “no guarda, non c’è solo lei, ma ce ne sono altre, ma lei non ti vuole, pazienza…” prova a fare un discorso così all’innamorato. Giustamente non ti dà ascolto perché per lui lei è tutto ed è assolutamente certo di questo tutto. Questo è misterioso e non c’è niente di più misterioso. Ecco perché gli uomini sono pronti a giocarsi la vita per questo. Dostoevskij ha descritto meglio di qualsiasi altro questo fatto per cui sono pronto a giocarmi la vita per quella lì, giocarmi la vita vuol dire che Dio e Satana si disputano il cuore dell’uomo. E’ un’esperienza misteriosissima, la più inverosimile, che prima o poi capita a tutti di fare. Dio e Satana si disputano il cuore dell’uomo: i due personaggi nell’ “Idiota” che non si possono pensare se non uno lo specchio dell’altro avranno un destino opposto: il principe Myškin si salva dalla tentazione, ma perdendosi, e sprofonda in una forma di demenza da cui non vi è ritorno: si salva dall’amore e tuttavia si perde. Mentre il suo alterego Rogozin uccide Nastas’ja e finisce in galera, ma perdendosi si salva perché è lui il delinquente, l’assassino che alla fine si salva. Il principe Myškin, l’angelico Myškin, l’unico uomo buono dopo Don Chisciotte, come dirà Dostoevskij, sprofonda. Ecco un esempio di come Dio e Satana si disputano il cuore dell’uomo, e non si sa come finirà, se finirà in mano a Satana o a Dio. Il conflitto è sempre aperto. Il mistero è rimasto tale.

Rondoni, entriamo nella riflessione di Givone: lui sposta il baricentro della domanda che abbiamo fatto all’inizio “che cos’è la bellezza?” concentrando la nostra attenzione non sull’essenza della bellezza, non sulla sua natura, ma soprattutto sullo scuotimento di chi la incontra. Come dire, non esiste bellezza al di fuori e al di là dello sguardo umano in cui essa si rivela.

DAVIDE RONDONI – Infatti ancora Bigongiari diceva: “un uomo è sempre più interessante di una roccia o d’un tramonto e anche di una roccia accesa dal tramonto”. Questo significa che quando parliamo di bellezza, parliamo anzitutto di un fenomeno umano, parliamo dell’esperienza umana della bellezza: è bella una roccia, è bello un tramonto, è bella una roccia illuminata dal tramonto ma un uomo è sempre più interessante di questo. Non esiste nemmeno la possibilità di parlare della bellezza in astratto dall’esperienza dell’uomo, che è un’esperienza segnata dalla finitezza, dal limite della contraddizione. Non si fa l’esperienza della bellezza come se fosse un anticipo del paradiso, cioè non si fa mai l’esperienza della bellezza fuori dalle condizioni dell’umano. Baudelaire in una sua poesia fa un elenco dei capolavori dell’arte, dei fari della bellezza prodotta dall’uomo, e verso la fine dice questo: “Goja, incubo ricco di realtà sconosciute, / di feti messi a cuocere al centro dei sabba, / di vecchie allo specchio e di fanciulle ignude, / che per tentare i demoni aggiustano le calze; / Delacroix, lago di sangue sfiorato da angeli perversi, / adombrato da un sempre verde bosco di abeti, / ove, sotto un cielo opprimente, strambe fanfare / passano, come un sospiro soffocato di Weber. / Queste maledizioni, bestemmie, pianti, / queste enfasi, grida, lacrime, e questi Te Deum, / sono un eco ripetuto per mille labirinti, / per i cuori mortali un oppio divino.” Questa bellezza, finisce così Baudelaire, è “un grido ridato da mille sentinelle, / un ordine rilanciato da mille messaggeri: / è un faro acceso su mille cittadelle, / un richiamo di cacciatori perduto nei grandi boschi! / Perché veramente, Signore, la miglior testimonianza / che noi possiamo dare della nostra dignità / è questo ardente singhiozzo che va di era in era / e viene a morire al confine della vostra eternità!”. La bellezza come ardente singhiozzo che va a morire ai piedi dell’eterno. La bellezza di un’opera è tale perché rispetta le condizioni della vita: questa è una cosa che mi ha colpito molto. L’arte non è una specie di messaggio e massaggio consolante ma scuote perché rispetta pienamente le condizioni che la nostra vita ha. Nella tensione che anima la Pietà Rondanini di Michelangelo c’è il bello e l’incompiuto, c’è il bello e c’è il limite, c’è l’ideale e c’è l’impotenza, c’è la riuscita e c’è il fallimento, sono rispettate le condizioni della vita. La bellezza dell’arte si tocca in quei momenti in cui la nostra natura si riconosce, non nel momento in cui una parte di noi viene soddisfatta. E’ lì che si fa l’esperienza della bellezza, quando vedi qualche cosa che rispetta la tua natura, in qualche modo la dice pienamente. L’uomo è interessante, non il sasso colorato dal tramonto. E’ interessante il sasso se lo guarda un uomo.

Dunque la bellezza nasce laddove c’è chi sente il continuo avvenimento dell’esistenza. Il poeta Auden diceva una cosa che mi ha sempre molto sorpreso: nella poesia si può parlare di tutto, ed infatti nella Divina Commedia si parla di tutto, dalle feci a Dio, ma quello che la poesia fa, quello che la bellezza fa, è rendere onore a quello che c’è perché c’è. E’ anche fin troppo facile cogliere la bellezza delle cose belle e, in un’epoca tragica come la nostra, a volte può sembrare che una certa enfasi sulla bellezza avvenga per contraltare ad un sentimento grigio dell’esistenza, come dire: siccome la vita fa schifo, almeno ogni tanto vai a teatro o a vedere una mostra. No, per me la sfida sulla bellezza è un’altra, ed è al livello per cui tu rendi onore a quello che c’è perché c’è, perché c’è una bellezza della realtà, di tutta la realtà. E’ bello quello che c’è in quanto c’è. Mario Luzi lo ha scritto benissimo: la poesia tende ad affermare con la massima intensità la presenza della vita, la nostra non rassegnata casualità nel mondo.

Però, Rondoni, come si confronta con quello che diceva prima Givone e cioè che vi è una tale mistificazione della bellezza in ogni nostra attività che a tutt’oggi sembra che essa sia innocua, secondaria e non decisiva di fronte alle questioni cruciali del nostro vivere e morire?

DAVIDE RONDONI – Bernard-Henri Lévy, che è uno degli intellettuali europei più ascoltati dai nostri quotidiani, dice che l’arte non deve cercare il bello, l’arte deve testimoniare un nichilismo attivo perché il bello non ci riguarda più. Ma davvero possiamo dare credito a queste parole? Davvero possiamo pensare che l’unica posizione dominante oggi sia questa, dove niente ti è caro, a niente ti senti legato e la vita è come un panorama che guardi dalla cima di una collina, dove tutto appare uguale a tutto perché niente ti appartiene e a niente tu appartieni? A mio avviso non si conosce senza avere qualcosa di caro. Avere delle cose care fa parte di un processo corretto di conoscenza. Invece, secondo questi nichilisti, sembra che la vera conoscenza avvenga quando fai cinque passi indietro e non ti attacchi a nulla. Ora, se fai cinque passi indietro, la prospettiva ti si chiarisce, ma anche è vero che questi passi indietro devono essere passi indietro di sguardo, non di affetto, non di legami, non di cuore. Se il cuore è sempre staccato cinque passi indietro dalle cose, tu le cose non le conosci più.

Alla posizione di Bernard-Henri Lévy e di tanti altri, per i quali l’arte si deve ridurre a registrare la negatività dell’esistenza e la vita deve essere accattata come fosse alla fine una fregatura, io contrappongo sempre una frase straordinaria di Don Giussani: la vita è una penombra; siamo in una penombra. E l’arte vive di questo grigio, partecipa a questo dramma continuo che è l’esistenza, in cui non esiste ciò che è già scampato o ciò che è già perduto, ma è continuamente un dramma, continuamente, appunto, una penombra. L’arte partecipa a questa penombra, ma questa condizione sarebbe solo nebbia se non fosse attraversata, in qualche modo animata, dalla tensione all’eterno, di cui l’arte e la bellezza sono alcune delle espressioni più acute. La bellezza scuote perché non censura la nostra contraddizione, perché è il segno di un movimento che c’è nell’uomo, cioè di una penombra in cui si cerca, non di una nebbia in cui ci si ferma.

Dante parte dalla selva, cioè comincia il suo viaggio da un posto che non sa risolvere. Se non avesse incontrato e cercato Beatrice, e senza l’aiuto di Virgilio, non avrebbe risolto la selva oscura della sua vita. Ma il viaggio di Dante, la sua intima aspirazione è conoscere ciò che unisce la vita, e ciò che la unisce è questo infinito che entra in essa.

Ezra Pound ha scritto una poesia su Venezia che è una delle più forti del Novecento, Venetian Night Litany. Cantando lo splendore della città sulla laguna, Pound sente a tal punto il colpo della presenza di Venezia che si chiede: cosa abbiamo fatto, o Dio, di così grande in passato per cui oggi ci dai questa ricompensa oppure quale orrore ci aspetta in futuro così da avere oggi questa consolazione previa? La poesia inizia propria con una invocazione e una domanda: “O Dieu, purifiez nos coeurs! / Purifiez nos coeurs! // Oh sì, la mia strada hai segnato / in piacevoli luoghi / e la bellezza di questa tua Venezia / m’hai rivelata / che la sua grazia è divenuta in me / una cosa di lacrime. // O Dio, quale grande gesto di bontà / abbiamo fatto in passato, / e dimenticato, / che tu ci doni questa meraviglia, o Dio delle acque? // O Dio della notte, / quale grande dolore / viene verso di noi, / che tu ce ne compensi così / prima del tempo?”

In Pound c’è dunque tutta la dismisura della presenza di Venezia. Qualche anno dopo il poeta Vittorio Sereni riscrive quella poesia e in qualche modo la parafrasa. Ma la distanza è enorme: mentre per Pound la bellezza è un colpo che arriva, rompe le misure e genera un senso di smarrimento e di sproporzione, per Sereni la bellezza di Venezia è l’esito di una congettura e infatti parla di come congetturare la città. A Dio non viene rivolta più nessuna domanda, nessuna invocazione da parte dell’uomo, come se il suo sguardo non fosse più disposto ad incuriosirsi e commuoversi di fronte al vivente e l’unico atteggiamento accettato fosse un sorvegliatissimo, mentale, quasi aziendale disincanto. Congetturare, appunto. Come se la domanda sul destino non fosse una domanda alla nostra portata, e la vastità di un’invocazione all’altissimo, quale ha fatto Pound, fosse sostituita da una ragionevole e alla fine fredda elaborazione dei sentimenti. Ecco, il nichilismo cosiddetto attivo di Bernard-Henri Lévy e di molti altri esponenti si nutre di questo, del disvalore non delle cose ma dell’esperienza umana che le giudica.

Givone, chiarisca questa lontananza forse soltanto apparente: Rondoni dice che, dall’antichità fino ad oggi, i grandi poeti condividono alla radice la stessa adesione e fiducia nei movimenti incontrollabili della vita, il pieno ascolto del dettato del vivente. La loro voce sarà tanto più forte quanto più la loro visione e la loro apertura nei confronti dell’esperienza avrà inteso che il mondo ha un’azione dentro, un misterioso scopo, un mistero di presenza. Così dicendo, Rondoni riconosce uno stesso gesto primario, creativo in poeti vissuti in epoche diversissime e con stili lontanissimi, da Omero e Dante a Leopardi fino a Luzi, Caproni e ai maggiori contemporanei. La bellezza di Dante, la bellezza di Ungaretti, la bellezza di Eliot sono nutrite da uno stesso gesto primario alla radice: dare credito all’esperienza dell’uomo. Appartandoci dalla poesia e andando incontro alle altre arti, lei riconosce la stessa visione, lo stesso gesto primario e creativo in una Pietà di Michelangelo e in una combustione di Alberto Burri, la stessa intima tensione che anima una Madonna di Raffaello e un orinatoio di Duchamp?

SERGIO GIVONE – L’arte contemporanea, e in genere l’arte del Novecento, non parla più di bellezza, anzi sembra sdegnare l’idea stessa di bellezza. Se nella nostra società solo ciò che è bello, gradevole e ben in mostra è degno di esistere, se nella nostra società vi è un progetto volto a trasformare il mondo nel segno della bellezza e ciononostante il risultato evidente è che viviamo in un mondo bruttissimo e intollerabile, ecco che, di fronte a questo scenario, molti artisti hanno reagito facendo emergere proprio l’esatto contrario della bellezza. Anziché rendere bello, cioè mettere in atto un modello di bellezza, che è stato elaborato e applicato ovunque, dal mondo del mercato al mondo della politica, dalla pubblicità alla televisione, e così via, gli artisti introducono ciò che non è bello, ciò che non vuole essere bello, ciò che è così com’è. Introducono l’inestetico nello spazio stesso dell’arte. Alcuni artisti hanno preso delle pietre e le hanno scaricate a caso in una galleria. Che cosa significa questo se non far irrompere l’inestetico nello spazio stesso dell’arte? Che cosa significa se non mettere radicalmente in discussione l’idea stessa del predominio del bello? Duchamp ha messo in mostra uno scolabottiglie e un orinatoio. Non lo ha fatto per invitarci a contemplare la forma di quegli oggetti che fino a quel momento abbiamo soltanto usato, non lo ha fatto per far sì che li valutassimo al di fuori del loro uso, come oggetti puramente artistici, ma per una ragione ben più rivoluzionaria: mettendo uno scolabottiglie in una mostra, in un luogo d’arte, in un luogo predisposto ad accogliere il bello, Duchamp ci rende chiaro questo fatto: e cioè che nel momento in cui questo oggetto è qui, in uno spazio espositivo, lo spazio espositivo, per così dire, esplode. Noi non possiamo più concepire l’arte e il nostro rapporto con gli oggetti estetici come l’abbiamo concepito fino a quel momento lì, perché, se uno scolabottiglie può, appunto, suscitare un’emozione di tipo artistico, allora è l’arte stessa che viene radicalmente messa in questione. E con essa il nostro modo di intendere e fare esperienza della bellezza.

La bellezza, come diceva Rondoni e come già affermava Emmanuel Kant, è l’incontro con un significato, con un senso delle cose attinto nel cuore stesso delle superfici, delle forme, delle finzioni: ci tocca nel profondo perché è più vero del vero.
Mi creda: la parola “bellezza” è fonte di molti equivoci, ciononostante la bellezza continua ad esserci anche se viene negata, continua a chiamarci, ad appellarci, a provocarci, perché è con noi, ci tocca, ci risveglia, ci parla da infinite eppure urgentissime lontananze. E’ la cosa più inutile che ci sia, ma non ne possiamo fare a meno. E’ assolutamente inessenziale ma è la sola in grado di dirci chi siamo. Mi viene in mente Albrecht Dürer che ha cercato la bellezza con ardore e disperazione: diceva di non sapere cosa fosse la bellezza e diceva tutto ciò dopo averla trovata, incontrata, vista, posseduta, dopo il suo viaggio in Italia, dopo l’incontro con l’opera di Raffaello, dopo aver lasciato sul suo cammino tracce luminose di bellezza nei luoghi più impensati. Aveva attraversato le Alpi passando dalla Valsesia, ed ecco che in quell’angolo di mondo aveva fatto fiorire la grande pittura valsesiana degna dei grandi maestri toscani. Cosa fosse la bellezza, lui diceva di non saperlo e lo diceva proprio lui che aveva un bisogno di bellezza impressionante, che viveva nella bellezza. Diceva di non sapere che cosa fosse, eppure la produsse, la innescò, se ne imbevve a lungo.

Slanci e passioni così audaci come questi sono ancora nostri?

SERGIO GIVONE – Di fronte alle coscienze più lucide dei secoli passati, di fronte a coloro che hanno saputo anticipare, prevedere, profetizzare il nostro tempo e che ci parlano della bellezza in questi termini, la domanda da porsi è proprio quella che tu hai fatto: noi siamo capaci di porci a quella stessa altezza? Quelle frasi, quelle citazioni, quelle esperienze di vita di cui stiamo parlando, dicono ancora qualche cosa per noi? Abbiamo fame di bellezza, del mistero della bellezza? Appunto, domande del genere sono ancora nostre? Bernard-Henri Lévy come la stragrande maggioranza di noi dice di no, dice che il mondo oggi non ha più bisogno di bellezza. Ma di quale bellezza stiamo parlando? Se parliamo di quella bellezza che vediamo moltiplicata all’infinito nelle immagini che hanno un valore puramente mercantile ed è solo un feticcio, se la cerchiamo così, certo, oggi, l’arte non sa più cosa farsene della bellezza. Anzi, come dicevo, l’arte fa l’esatto contrario: se il mondo va verso questa bellezza profanata, questa profanazione del bello, questo involgarimento, questa moltiplicazione del bello che non è più bello ed è soltanto una cosa triviale e scontata, l’arte si ritira, nega la bellezza, la rifiuta, compie una sorta di ascesi che avviene in tanti modi.

E’ su questi modi che dobbiamo riflettere, soffermarci e capire che cosa sta accadendo: Orlan, è un’artista francese che con il bisturi si trasforma il viso e gli dà profili che in modo parodistico scimmiottano le grandi figure della bellezza: un giorno questa performer compare con la faccia della Venere del Botticelli o della Monna Lisa. Mascheroni orrendi, ma fatti di proposito? Ma che cosa sta facendo questa donna? Sta profanando la bellezza in nome di cosa? Forse in nome di ciò che non c’è più; ma se questo accade, il nome di ciò che non c’è più, il nome che è solamente evocato, il nome di quella nostalgia, che cos’è se non la bellezza stessa? Francis Bacon sfregia sulla tela la figura delle figure, quella che ci fa a immagine e somiglianza di Dio, sfregia la figura dell’uomo, e fa diventare le facce e i corpi come pezzi di macelleria: ma questo sfiguramento è puro nichilismo riconciliato con se stesso oppure vi è una profonda nostalgia nella negazione stessa della bellezza? Non è la bellezza stessa che ritorna ad inquietarci? Non è di nuovo la bellezza l’ospite inquietante? Dunque, alla domanda che avevo lasciato in sospeso, e cioè se le parole di Rilke, Baudelaire e Dostoevskij fossero ancora nostre, fossero ancora parole che ci servono per capire che cosa sta accadendo, ora tolgo il punto di domanda, tolgo le parentesi, la sospensione, e rispondo così: quelle loro parole “la bellezza non è niente di meno che l’inizio del tremendo”, “la bellezza è il campo di battaglia nel quale Dio e Satana si giocano il cuore dell’uomo”, “Da dove vieni, o Bellezza, da un cielo anteriore o dall’abisso / il tuo sguardo, infernale o divino che sia, versa / mischiandoli, beneficio e delitto….”, quelle loro parole ci servono ancora perché anche laddove la bellezza è negata, anche il movimento è un contro movimento e, principalmente lì, abbiamo a che fare con quella fame di bellezza che certo sta in una luce tutta negativa ma sempre della stessa cosa si tratta.

Dunque, queste frasi sono ancora nostre? Sì, lo sono. Non affrettiamoci infatti a concludere che nel mondo d’oggi, pieno di consumi, di brutture, di bello asservito all’utile e al consumo, la bellezza come sguardo infernale o divino, la bellezza come campo di battaglia, la bellezza come inizio dell’inquietante, che scuote nel profondo non è più una cosa che ci riguarda. Credo proprio il contrario, perché se questa fame di bellezza di cui stiamo parlando venisse meno, allora saremmo perduti.

Per concludere, Givone, accolga e al tempo stesso provi a sciogliere una perplessità sul cuore della vostra riflessione. Oscar Wilde ha scritto: “La bellezza è l’unica cosa contro cui la forza del tempo sia vana” e lei prima, concordemente con Wilde, ha detto: “E’ assolutamente inessenziale ma è la sola in grado di dirci chi siamo”. Però proviamo ad astrarci un attimo dalla riflessione, proviamo a pensare alla morte di una nostra persona carissima, all’agonia in un letto d’ospedale di un giovane, ad un bambino che nasce, ad una guerra di etnia, proviamo a pensare alla lotta di magistrati contro le ingiustizie, ad una maestra che insegna il perdono e la riconoscenza ai suoi scolari. Pensiamo a questi altri gesti del vivere degli uomini. Di fronte ad essi, davvero la bellezza è l’unica cosa contro cui la forza del tempo sia vana? Questa frase non porta sempre con sé il dubbio che sia una risposta parziale, addirittura comoda? Provi a sciogliere questi dubbi.

SERGIO GIVONE – E’ tutt’altro che facile, è una frase scomoda, difficile, che va in controtendenza, tanto che io recluterei subito Oscar Wilde insieme a Rilke, Baudelaire e Dostoevskij che hanno pensato la bellezza in chiave metafisica, che hanno tenuto saldo il legame tra bellezza e verità. Oscar Wilde dice che la bellezza è tutt’uno con l’eterno, cioè afferma il contrario di quello che diciamo tutti, ovvero che la bellezza sfiorisce, declina… chi è che oggi non crede questo come la cosa più ovvia? Oscar Wilde ci dice il contrario: la bellezza è in rapporto con l’eterno, non sfiorisce, e una volta che tu l’hai afferrata è per sempre. Nel Simposio Platone dice la stessa cosa: la bellezza, una volta che è, è per sempre. E’ come quei moti del cuore – sostiene Socrate – di cui nessuno si accorge, è come quei sentimenti puri, l’esempio di un gesto di umiltà puro, assoluto: sappiamo che nel mondo tutto è mescolato, tutto è fatto di fango e di pietre preziose, tuttavia esiste qualche cosa di assolutamente puro, un gesto di grazia, una miracolosa capacità di perdonare, e nel momento in cui questo è avvenuto, magari nessuno se n’è accorto e il mondo ha continuato la sua strada rovinosa. Ma qualcuno in quel momento ha sfiorato l’eterno, ha avuto pietà del suo simile senza condizioni, ha fatto qualche cosa – dice Socrate – che gli dei non potranno mai più fare, è avvenuto una volta sola in un attimo, ma è l’eterno. Quello che vale per il bene vale anche per il bello: posso anche non sapere che cos’è la bellezza, ma nel momento in cui l’ho afferrata, l’ho fatta mia, non c’è più nessuno che me la tolga. Certo che quel volto di lì a poco sfiorirà: ma quel volto è stata l’occasione di un’autentica epifania, cioè una rivelazione dell’eterno nella bellezza. Socrate nel Simposio, fingendo o non fingendo, non riesce a venire a capo di questa strana cosa: la bellezza è effimera, sfiorisce, dura lo spazio di un mattino, ciononostante, una volta afferrata, è per sempre. Si appella così per cercare una spiegazione alla sacerdotessa Diotima, che fu una donna sapienziale dell’Antica Grecia e che Platone inserisce nel Dialogo, e lei risponde esattamente come Oscar Wilde. Dice infatti: Eros, il sentimento che ci spinge verso la bellezza, è generazione dell’eterno nella bellezza. Questo significa che quando noi sentiamo fame di bellezza, quando Eros ci spinge verso qualche cosa che evidentemente non abbiamo, che cosa troviamo? Troviamo ciò che non tramonta, ciò che è sempre identico a sé, ciò che ci è apparso come il gesto della più spregevole delle creature e invece è un gesto di eternità.

*Il dialogo è avvenuto all’interno della prima edizione del “Festival delle Arti dell’Antica Badia” (direzione artistica Luca Nannipieri) nel giugno 2009, presso l’Abbazia di San Savino, in provincia di Pisa.

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